Il testo che pubblichiamo è una parte dell’Introduzione di Leone Piccioni alla prima edizione di“Eros e Priapo” di Carlo Emilio Gadda nella collana “Gli Elefanti”di Garzanti. Oggi l’intero scritto è raccolto nel volume di Carlo Emilio Gadda e Leone Piccioni “Col nuovo sole ti disturberò – Lettere, scritti e detti memorabili” a cura di Silvia Zoppi Garampi (Succedeoggi Libri, 2022)
di Leone Piccioni
Eros e Priapo si pone in una condizione assolutamente diversa da tutti gli altri libri di Gadda: vi è pochissima varietà tonale, e c’è praticamente un solo accento che risalta dalla prima all’ultima riga, quella della polemica anche devastante, anche furiosa, anche incontrollata, con rare preoccupazioni, da parte dello scrittore, di rientrare nella norma. Pensando al duce, alle sue qualità amatorie, pensando alla “banda” o “brigata” dei gerarchi fascisti, pensando alle donne fasciste in particolare e alle donne in genere, la dilatazione della sua furia non conosce autocritica e auto dimensionamento. Cominciò a lavorare a Eros e Priapo subito dopo la liberazione di Firenze, negli anni ’45-’46 mentre contemporaneamente si dedicava anche alla stesura del Pasticciaccio. Sfogava la rabbia per i vent’anni del fascismo (che al suo sorgere aveva salutato con qualche simpatia: a chi glielo rimproverava, andava ripetendo: «Ma lo sa lei che il giorno della mia laurea in ingegneria coincise con l’occupazione delle fabbriche?»), per quelli della guerra e della fame patita a Firenze, e dei bombardamenti, prendendosela, appunto, soprattutto con quello che fu il simbolo del fascismo stesso. Ci pensava certo, dunque, anche quando era sfollato nelle vicinanze di Greve, a Chiocchio, dove anche alloggiavano in case diverse Montale, Russo, Mattioli. Sospese il lavoro, preso da altri impegni, per ricominciarlo verso il ’55. La rivista «Officina», infatti, ospita alcune pagine del libro sotto il titolo Il libro delle furie nel primo numero, del maggio ’55, nel secondo, del luglio ’55, nel terzo, del settembre ’55 per chiudersi, con una letterina di scuse, nel quarto, del dicembre ’55. La prima edizione di Garzanti con il titolo Eros e Priapo è del ’67; una ristampa, cambiando collana, viene proposta nel ’75.
Eros, si sa, è il dio dell’amore, simbolo di amicizia, di amore e dunque anche di armonia: «Eros è alle radici della vita del singulo e della mente individua: ed è fonte all’istinto plurale e alla sociale pragmatica di ogni società e di ogni associazione di fatto, e di ogni fenomeno quali vo’ vu’ dite “collettivo”. I rapporti tra l’uno “e gli altri” sono Eros, quando magari contratto, quando magari trasfigurato e sublimato». Priapo, invece, è il simbolo dell’istinto sessuale e della forza generativa maschile. Figlio di Dioniso e di Afrodite ai tempi della Grecia e specialmente di Roma, è indicato anche come custode degli orti e dei giardini e nella sua immagine è continuamente accentuato il carattere fallico. «Una lubido, una fojia pittorica e teatrale hanno condotto l’Italia al sacrificio durante il catastrofico ventennio, non una ratio, … una coscienza etica, uno spirito religioso» … «Il costruire un sistema filosofico sulla propria indole ghiandolare, cioè aventi la propria tiroide e le surrenali a meccanismo impulsore del mondo, il suo costituire il proprio bellico a perno del mondo, a pivot, non è operazione filosofica».
Eros e Priapo doveva risultare una sorta di trattato, metafisico, sociologico, psicanalitico, pedagogico. Opera naturalmente non finita («al che mi bisognano quattrocento pagine di cui non dispongo»; «ad altro volume un più lauto, un più circostanziato esposto»). Ma Gadda notava: «Non sono psichiatra». Non in possesso di «una pedagogia sagace». Il trattato diventa, un «libello». Così lo definisce lo stesso Gadda nell’introduzione a Eros e Priapo aggiungendo: «Cioè, minimo libro». Ma io credo debba essere assunto il significato di «libello» in tutta la sua portata polemica.
Dando un’occhiata alla stesura di «Officina» si può notare un inizio, e un proseguimento caratterizzati da una violenza stilistica anche maggiore di quella che sarà poi messa in opera nella edizione definitiva. Si è sentito dire che anche altri personaggi sarebbero dovuti trasparire tra le righe dell’opera, per esempio i Ciano, forse la Petacci, ma che prudenzialmente quei riferimenti furono accantonati. Viene in mente dalla raccolta di Novelle dal Ducato in fiamme, Vallecchi 1953, il racconto Socer generque, quel “suocero” altre volte detto il Predappio, il Caminate, il Minchione Ottimo Massimo, e ora in Eros e Priapo in tanti altri modi (Batrace, Pirgopolinice, il Fava, il Bombetta, ecc…) e il “genero”, «diplomatico di quei sottili».
Tre, dunque, gli obiettivi principali del furioso sparo di artiglieria movimentato da Gadda: il Duce; i gerarchi e le donne fasciste. Ma c’è una notazione, forse non tanto semplice, ma che è pur necessario fare. L’odio contro il Duce è certamente giustificato da tutte le vicende del ventennio, della guerra e della sconfitta. Ma certo nella polemica di Gadda scatta qualche cosa di più per le decantate qualità erotiche del Predappio. Gadda non poteva digerire i “grandi amatori”. Non altrimenti portò antipatia viscerale contro il Foscolo (e lo si può vedere ne Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, Garzanti 1967) e anche nei reiterati accenni a Napoleone (basti ricordare la famosa nota sull’incoronazione inserita nell’Adalgisa). E Foscolo e Napoleone rientrano anche nelle pagine di Eros e Priapo. Così quando si andrà ad esaminare i rapporti tra le donne fasciste o italiane del tempo e Mussolini, Gadda non può che andare in bestia di fronte al legame di sessualità e priapesco che gli sembra di poter abbondantemente notare: «Autoerotomane affetto da violenza ereditaria»… «Questo qui, Madonna bona! Non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè» … «Pervenne, pervenne. Pervenne a far correre trafelati bidelli… Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d’un orango… Pervenne, alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell’emiro, del condottiero di quadrate legioni in precipitosa ritirata. (Non per colpa loro, poveri morti; poveri vivi!). Sulle trippe, al cinturone, il coltello: il simbolo e, più, lo strumento osceno della rissa civile…». «Che il pragma della banda e del capintesta è un pragma bassamente erotico, un basso prurito ossia una lubido di possesso, di comando, di esibizione, di cibo, di femine, di vestiti, di denaro, di terre, di comodità e di ozî?». Quanto alla «banda», «si trattava per lo più di gingilloni, di zuzzurulloni, di senza mestiere, dotati soltanto di un prurito e di un appetito che chiamavano virilità, che tentavano il corto circuito alla carriera attraverso le “politiche”: intendendo essi per politica i loro diportamenti camorristici». «Con proibire tutto a tutti, la delinquente brigata ha garantito ad essi ogni maggiore comodità e sicurezza» … «La causale del delitto, cioè i torbidi moventi che hanno costituito per la banda euforica l’impulso primo verso una serie di azioni criminali, è una causale non esclusivamente ma prevalentemente “erotica” nel suo complesso: segna il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi di Logos».
Più ampio ancora è il capitolo del Duce e delle “femine” e quello delle donne per se stesso (dove riappare l’inveterato misoginismo di Gadda). Bastino pochi accenni: «Giunse a far credere a codeste osannanti di essere lui il solo genitale-eretto disponibile sulla piazza… Egli era d’altronde l’organo generatore dominante, il fallo paterno padronale e precipuo». «Le care donne colsero così il salubre respiro del marito o del confidente, con il pensiero al kuce. Nel gioco pareva loro che fosse il kuce a governarle. Il kuce, il kuce in pelle e in siringa di Zefirino. Quel forte despota era il kuce… così esso il kuce e soltanto esso il kuce, per tutti i talami e i divani letto e i lettucci e le piazzemezzo e le sponde e le prata dette pratora e i camporelli detti campora d’Italia, era lui vitalizzare messer Mastro Pùngolo alle sue sfruconanti bisogne, alle più efficaci bisogne».
E infine: «Se donna esibisce persona tutta, e specificamente il treno pòstico e i seni; se uomo esibisce il cipiglio e lo incedere, e scimarra e pennacchio, bisogna te ti ponghi a mente, non ostante il veto secolare del pudore, che la specifica esibizione dell’Io maschile, in ogni fase narcissica; cioè preludente all’amore, è la esibizione metaforica della mentula eretta».
Abbiamo accennato agli scarsi cambiamenti di tono: il macello delle guerre perdute, ad esempio; il ricordo dei morti (e del fratello) nella guerra del ’15-’18; gli alpini dell’Adamello; la dolente figura della madre. Ma tutto è annullato dai rospi che «devo pur principiar a buttar fuora», dalla «bile», «quante ne vidde e scrisse in bile di codesta patria di tutte trippe!» («il su’ rospaccio rospo l’ha da recere»; è «la irritazione» che domina.
Il lettore troverà pagine bellissime, pur nella furia, in questo libro.
«Talché amici, o forse inimici, non sarà stupore dopo quanta bile!, dopo interminata vergogna, d’un tal quale serpentesco iridarsi della mia suite: voi arete a danzare con vostre donne ad agio, ad allegro, e a presto: levare indi il bicchiere, il colmo ancora o il già trasparito bicchiere di vostra giovanezza, a la faccia de la sdentata eternità. Ché la suite la si partirà secondo e’ patti e gratterà lungo tutto il festino conoscendone rigodone e perigordino, indi arlesiana: con ciaccona, pavana, chiarentana, ciciliana e lamento a dondolo: bergamasca, seguidiglia, passacaglia, tarantella, tattarello, polacca, punta e tacco. E sarabanda: e giga».