di Lucio Caporizzi
In seguito alla presentazione del disegno di legge-quadro del ministro Calderoli, recentemente approvato dal Consiglio di Ministri, è ripresa la discussione pubblica sulle richieste di autonomia regionale differenziata, già a suo tempo avanzate in base all’articolo 116, comma 3 della Costituzione dalle regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna.
Sarà un caso che l’iniziativa sia stata presa dalle 3 regioni più ricche del Paese, che, da sole, fanno circa il 40% del Pil italiano?
In tale norma costituzionale si introduce il principio della differenziazione degli ordinamenti delle Regioni a Statuto Ordinario, attribuendo loro la possibilità di negoziare con lo Stato forme e condizioni particolari di autonomia, consentendo in tal modo il passaggio di alcune materie dalla competenza concorrente a quella primaria, oltre ad acquisire competenze anche su materie di esclusiva competenza statale (giudici di pace, istruzione e beni culturali, ambiente ed ecosistema). Va innanzitutto chiarito che si tratta di una questione di importanza cruciale per il futuro del Paese, dal punto di vista istituzionale, sociale, politico ed economico. Ben lungi dal rappresentare eventuali semplici modifiche agli assetti amministrativi, le richieste di cui sopra comportano un complessivo riassetto delle responsabilità su tutte le principali politiche economiche e sociali, a partire da istruzione e sanità.
L’attenzione è in questa fase prevalentemente concentrata sul processo decisionale, con particolare riferimento al ruolo che in tale processo deve avere il Parlamento.
Tanto nelle ipotesi costruite nel 2019 dal governo Conte I quanto nel disegno di legge Calderoli, infatti, il ruolo delle Camere appare residuale se non proprio mortificato, ridotto alla formulazione di pareri consultivi e a un’eventuale approvazione a scatola chiusa. Quasi che si voglia cambiare profondamente l’Italia a colpi di Dpcm e di Intese con le singole Regioni, senza che il potere legislativo abbia tempo e modo di valutare e, conseguentemente, esprimersi.
Va invece ricordato che, a norma della Costituzione, le Regioni possono chiedere le competenze previste dall’articolo 116, ma sta al Parlamento, considerando l’interesse nazionale, decidere se e quali concedere.
Inoltre, non è che le richieste possano essere fatte così “all’ingrosso”: il Veneto ha iniziato richiedendo tutte le 23 materie possibili e adottando, nel 2017, una Delibera consiliare dove si fissa l’obiettivo di trattenere i nove decimi dei tributi riscossi sul proprio territorio.
Dalla Scuola all’Università, dalle infrastrutture (ferrovie, autostrade) all’energia (produzione, trasporto e distribuzione), dalla Sanità alle attività produttive, le Regioni “differenziate” assumerebbero un livello di poteri del tutto simile a quello di uno Stato sovrano.
Le richieste, in realtà, andrebbero motivate in base alle specifiche condizioni, problematiche e vocazioni del territorio, cosa che nessuna Regione ha finora fatto, né viene chiesto loro di farlo: ciò significa che tutte le Regioni a statuto ordinario possono potenzialmente cercare di ottenere tutte le competenze. Competenze che vengono concesse sulla base di una Intesa fra stato e singola regione; ciò significa che qualsiasi decisione parlamentare di devoluzione di poteri è sostanzialmente irreversibile, dato che cambiare l’intesa richiederebbe il consenso regionale.
I difensori dell’autonomia differenziata “spinta”, sostengono, tra l’altro, che portare quante più competenze e le relative risorse in periferia significa avvicinare la loro gestione – e le connesse responsabilità – ai cittadini e, quindi, al controllo degli stessi sugli organi politico-amministrativi. Certo non è da rimpiangere, infatti, l’effetto di deresponsabilizzazione che decenni di finanza derivata hanno avuto nei confronti delle regioni italiane, laddove gli amministratori regionali gestivano risorse trasferite loro dallo Stato con vincolo di destinazione, senza quindi dover rispondere ai propri elettori del reperimento di tali risorse.
Tali argomentazioni rappresentano il cuore del federalismo fiscale, in merito al quale venne approvata una apposita legge nell’ormai lontano 2009, la numero 42, legge per la quasi totalità ancora inattuata. Quindi, non si dà compimento al federalismo fiscale – peraltro a suo tempo cavallo di battaglia dello stesso partito del Ministro Calderoli – ma si intende “strappare” in avanti con l’autonomia differenziata.
L’impianto del federalismo fiscale, come venne disegnato dalla legge sopra citata, si basava su:
a.L’applicazione del principio di territorialità delle imposte, secondo cui una parte delle risorse deve essere reinvestita, sotto forma di servizi pubblici locali, nel territorio stesso in cui sono prodotte. Si tratta del cuore del concetto di federalismo fiscale, che richiede una corrispondenza leggibile tra servizi erogati e prelievo delle relative risorse per un dato territorio, pur non escludendo l’operatività di schemi perequativi. Al riguardo, occorre peraltro precisare che territorialità e autonomia tributaria non sono sinonimi. Per la territorialità sono sufficienti le compartecipazioni al gettito di tributi erariali con quote fissate a livello statale, mentre l’autonomia presuppone l’effettiva manovrabilità di tributi propri (in termini di aliquote e di basi imponibili);
b.L’identificazione delle funzioni fondamentali assegnate agli enti territoriali (ex lettere m e p del comma 2 dell’art. 117 della Costituzione) e la garanzia della copertura dei relativi fabbisogni;
c.La quantificazione dei fabbisogni delle suddette funzioni fondamentali per il tramite dello strumento dei costi standard, che si pongono quindi come l’architrave su cui poggia la sostenibilità finanziaria dell’intero riassetto della finanza per livelli di governo, la cui definizione dovrebbe incorporare il perseguimento di determinati obiettivi di efficienza;
d.Il prevedere, per le funzioni diverse da quelle fondamentali, uno schema perequativo basato sulla riduzione dei divari di capacità fiscale pro-capite tra i diversi territori;
Il conseguente superamento della spesa storica e dei ripiani a piè di lista, in nome appunto di una più effettiva responsabilizzazione dei governi regionali e locali, coniugata con un elevato livello di solidarietà tra territori e nel rispetto del principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini del Paese di fronte a servizi fondamentali quali la Sanità, l’Assistenza sociale e l’Istruzione (i cosiddetti diritti di cittadinanza).
Ma non è certo questo lo schema generale che si va perseguendo con il percorso delineato dal Governo, nonostante che nei vari aggiustamenti, siano stati introdotti nel ddl in questione una serie limiti e cautele, in particolare con riferimento alla preliminare fissazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep).
Le Regioni proponenti, del resto, non chiedono l’attuazione della legge 42/2009, ma meccanismi finanziari “concordati” simili a quelli in vigore per le Regioni a statuto speciale. È comprensibile la preoccupazione dei rappresentanti dei territori del Paese a minor reddito perché questo potrebbe determinare un ampliarsi dei già notevoli scarti esistenti. Anche perché acquisire quante più risorse finanziarie possibili è da sempre un obiettivo chiaramente enunciato (anche se ora messo in sordina) delle amministrazioni regionali di Lombardia e Veneto, come dimostrato dalla richiamata delibera consiliare del Veneto del 2017.
Anche se ora non se ne parla granchè – per evidenti motivi tattici e anche per le divisioni in tema dentro la maggioranza – quello del “residuo fiscale” resta uno dei temi di fondo della questione, che concorre a dare una risposta al quesito posto all’inizio, del come mai a muoversi siano state le regioni più ricche del Paese.
Si intende per “residuo fiscale” una stima ottenuta raffrontando la spesa pubblica complessiva che ha luogo in un dato territorio con l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti dello stesso territorio, calcolo in realtà non semplice e che non sempre dà luogo ad esiti certi ed univoci. Sta di fatto che il gettito è certamente superiore alla spesa in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte e Toscana, mentre è certamente il contrario (gettito inferiore alla spesa) nella 8 Regioni del Mezzogiorno, in Umbria ed in Friuli. Per le altre regioni la stima cambia a seconda del metodo di calcolo utilizzato. In particolare in Umbria il residuo fiscale – abbiamo visto negativo – è stato stimato alcuni anni fa intorno ai 1.000 euro pro-capite. Notoriamente l’Umbria conosce da diversi anni una calo del suo Pil pro-capite, quindi del reddito prodotto in regione, calo parzialmente compensato da notevoli flussi di risorse pubbliche in entrata, che fanno sì che il reddito disponibile pro-capite si presenti invece a livelli ben più elevati del Pil. Basterebbe questo dato per capire con quanta attenzione andrebbe seguita, in Umbria, la vicenda dell’autonomia differenziata.
A sua volta, il residuo fiscale complessivo della Lombardia – positivo – è stimato tra i 50 e i 60 miliardi di euro, un ammontare quasi uguale alla metà dell’intero Fondo sanitario italiano.
Si dirà, ma se una certa funzione era svolta dallo Stato e poi passa alla Regione, unitamente alle relative risorse, magari sotto forma di un corrispondente maggior gettito fiscale di quella regione trattenuto sul territorio, i conti tornano. Lo Stato incassa meno risorse come gettito proveniente da quella Regione ma, al tempo stesso, spende meno per finanziare servizi su quel territorio in quanto con il trasferimento di competenze, sarà la Regione a provvedere.
Magari avremmo una “cristallizzazione” della spesa storica, finché non si passi ai fabbisogni standard, con le conseguenti disparità territoriali già esistenti, ma non un peggioramento di tali disparità.
Forse le cose andranno davvero così, ma vi sono elementi per pensare che, nel tempo, le disparità potranno invece crescere. Intanto l’azione redistributiva dello Stato non si realizza tra territori ma tra individui, segnatamente a favore delle persone meno abbienti, anche grazie ad un sistema impositivo ad aliquote progressive (sarà un caso che il Governo che porta avanti l’autonomia differenziata sia anche lo stesso che propugna, con la flat tax, un’attenuazione della progressività del sistema impositivo sul reddito…?). Inoltre, le pre-intese già siglate – che vengono recepite nel ddl Calderoli – non paiono infatti così “neutre” dal punto di vista della ripartizione delle competenze tra i livelli di governo e delle relative risorse.
Al punto 4 delle pre-intese siglate il 28 febbraio 2018 tra i Presidenti di Lombardia e Veneto ed il Governo, trattando di risorse, a proposito dei fabbisogni standard, si recita testualmente che dovranno “….progressivamente….diventare, in un’ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente ed al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali,…”.
Il rischio è che la capacità fiscale pro-capite – notoriamente molto più elevata in quei territori rispetto alla media nazionale – diventi uno degli elementi di calcolo dei fabbisogni standard di quelle regioni.
Ecco, non sarà lo Spacca Italia o la Secessione dei Ricchi, come paventato da alcuni, ma, certo, qualche preoccupazione è lecita e fondata, soprattutto da parte di chi, invece, ha capacità fiscale inferiore.