di Lucio Caporizzi
Il debito pubblico italiano, misurato come percentuale del Pil, si colloca al sesto posto nel Mondo, con il Giappone stabilmente al primo posto.
La dinamica del nostro debito pubblico, per molti anni più debole di quella del Pil, ha segnato un’accelerazione con gli inizi degli anni ’80 e a cavallo tra gli ’80 e i ’90 la curva del debito incrocia e poi stabilmente supera quella del Pil, con un’attenuazione a metà degli anni 2000 ed una brusca ripresa in seguito alla successione di crisi – subprime, debiti sovrani, pandemia e guerra – dal 2008 fino ai giorni nostri.
A partire dagli anni ’80, da La Malfa a Reviglio, da Formica a Visco, si sono avute diverse analisi ed approfondimenti sul debito pubblico, sui suoi determinanti e le sue spiegazioni politiche, i suoi effetti economici e sociali.
Un “teorema” suggestivo, confortato da diverse evidenze empiriche, attribuiva l’espansione del debito non tanto ad un eccesso di spesa, quanto ad una carenza di entrate. Dato che il debito è la somma dei disavanzi di esercizio, a loro volta derivanti da uno sbilancio tra entrate e spese, detta cosi suona come un’affermazione banale.
In realtà intendeva sottolineare il fenomeno della ridotta base imponibile che genera, al tempo stesso, un’elevata pressione fiscale (per chi paga..) ed un gettito insufficiente, tirando quindi in ballo l’annosa questione dell’evasione fiscale. Evasione in vario modo tollerata, se non proprio favorita, dalle maggioranze di Governo, che avevano in ciò sostanziosi ritorni elettorali.
Il teorema veniva, a volte, completato considerando come coloro che le tasse non le pagavano fossero, magari, tra i più assidui sottoscrittori dei titoli di Stato (i Bot people), titoli le cui cedole per diverso tempo non erano tassate; da cui, tagliando un po’ con l’accetta, una “divisione del lavoro” tra chi finanziava la spesa pubblica – e, quindi, i relativi servizi e investimenti – a “fondo perduto” (pagando le tasse) e chi, invece, prestando i soldi e ricavandone i relativi interessi, interessi che, ovviamente, venivano pagati da quelli del “fondo perduto”. Da qui a delineare un imponente trasferimento di risorse a danno del popolo dei “sostituti di imposta” ci corre poco. Questi ricordi ed i conseguenti ragionamenti, paiono tornare d’attualità con le prime mosse del nuovo Governo Meloni appena insediatosi, relativamente all’elevazione del limite per l’uso del contante nei pagamenti. Nulla di inatteso, dato che una tale misura era esplicitamente prevista nel programma elettorale della coalizione di destra, esattamente al penultimo punto della sezione 8 del Programma per l’Italia, sezione dedicata alla Difesa del lavoro, dell’impresa e dell’economia. Non è chiaro cosa abbia a che fare un maggior uso del contante con la difesa dell’economia. Negando che possa esserci una correlazione tra uso del contante ed evasione fiscale, la misura viene giustificata in nome di una sorta di “inclusione finanziaria”, per non dover per forza avvalersi di mezzi di pagamento che presuppongono un rapporto con istituti di credito; finalità, questa che pare, però, contraddetta da quanto previsto alla sezione 4 dello stesso programma, dove si sostiene il “Diritto al conto corrente per tutti i cittadini “.
Quanto poi al rapporto tra uso del contante ed evasione fiscale (ed economia sommersa ed illegale), senza scomodare recenti analisi dell’Ufficio Studi di Banca d’Italia in merito all’effetto che ebbe l’elevazione da 1000 a 3000 euro disposta nel 2016, è universalmente risaputo che laddove si voglia pagare una prestazione professionale o un intervento di un manutentore senza ricevere fattura, si ricorre al pagamento in contante. Ora, non sarà la regolamentazione per via normativa dell’uso del contante a contrastare tali comportamenti, ma affermare che i pagamenti in contante non hanno a che vedere con l’evasione fiscale pare davvero un voler disconoscere l’evidenza.
Piccole evasioni, viene detto, mentre occorre concentrarsi sui grandi evasori…sì, piccole, ma molto diffuse e, in fin dei conti, mille piccoli evasori che sottraggano 1000 euro ciascuno equivalgono ad uno grande che ne sottrae un milione, in termini di gettito. Già, in termini di gettito, ma non in termini di consensi elettorali!
Insomma, non pare si voglia andare in direzione di un rafforzamento della lotta all’evasione fiscale e neanche dell’equità orizzontale tra contribuenti, anzi, visto che questo principio fondamentale non viene più rispettato neanche formalmente.
Del resto come attendersi un impegno di tal genere da parte di un Governo che, tra “pace fiscale”, flat tax, aumento dell’uso del contante e proponimenti di indebolire l’Agenzia delle Entrate, è tutto orientato verso un “addolcimento” delle politiche tributarie, in particolare a favore del lavoro autonomo, per il quale è infatti prevista un’ulteriore espansione fino a 100.000 euro del limite del regime di tassazione forfettaria, già elevato a 65.000 euro dal primo Governo Conte con la legge di bilancio 2019, applicando al reddito imponibile così delimitato un’aliquota fissa del 15% .
A meno che il lodevole intendimento espresso dalla Presidente del Consiglio di non voler “..disturbare chi vuol fare..”, ricomprenda nel “non disturbare” anche il non esigere il rispetto delle regole, ad iniziare da quelle fiscali. Del resto in tema di politica economica e, segnatamente, di politica industriale, emergono le tipiche contraddizioni delle posizioni della destra, con le intenzioni di dare ampio spazio allo spirito imprenditoriale degli italiani contraddette da spinte stataliste (per esempio sulle reti) e, soprattutto, dall’assordante silenzio sulle politiche per la concorrenza. Tornando alla politica fiscale, le linee del Governo paiono ripercorrere le vecchie strade del pentapartito. Benevola tolleranza verso i numerosi, “piccoli” evasori – e anche verso quelli un po’ meno piccoli – in nome delle ragioni dello sviluppo economico 8e dei portafogli degli evasori..), lasciando il carico fiscale sempre più sulle spalle di chi, volente o nolente, paga fino all’ultimo euro. Chi sono i primi ed i secondi? Certo, le generalizzazioni non sono metodologicamente corrette in questi casi, ritrovandosi contribuenti fedeli ed infedeli in tutte le categorie. Ma se si va a vedere che l’84% della base imponibile Irpef è costituita dai lavoratori dipendenti ed assimilati e che le stime ufficiali danno i redditi da lavoro autonomo evasi per circa il 68%, qualche indicazione la si può ottenere.