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di Lucio Caporizzi

È recentemente uscito, nella serie dedicata alle Economie regionali, il tradizionale Aggiornamento autunnale di Banca d’Italia sull’economia umbra, che si pone, pertanto, come utile integrazione dell’analisi presentata nel giugno scorso.
Negli stessi giorni è stata altresì presentata, per il confronto con le forze economiche e sociali, la bozza del Defr 2024 della Regione Umbria, il documento che annualmente espone le linee di indirizzo della programmazione regionale, oltre a fare il punto – anch’esso – sul quadro economico dell’Umbria.
Ambedue i documenti sono utili per farsi un’idea degli andamenti del sistema economico regionale, tenendo presente che il Defr, rispetto allo studio di Banca d’Italia, tende più a “valorizzare” l’operato del Governo regionale. Pur non essendovi nulla di strano o di insolito, in ciò, andrebbe sempre ricordato che l’azione in campo economico dell’Amministrazione regionale difficilmente può produrre, nel medio periodo, impatti rilevanti – che siano positivi o negativi – su variabili strutturali come il Pil, i tassi di occupazione, l’export, etc.
In particolare nel Cap.1 del Defr i dati economici dell’Umbria vengono distinti tra il periodo 2019-2022 (più o meno coincidente con l’attuale maggioranza di Governo regionale) ed il precedente periodo 2009-2018. Non si capisce il criterio di scelta di tale ultimo periodo, perché 2009-2018 e non, per esempio, 2000-2018 oppure 2005-2018. Si evidenzia il dato del Pil procapite (ricordiamo che parliamo di dati comunque provvisori, dato che Istat rilascia i conti territoriali definitivi con uno sfasamento di circa 2 anni) umbro per il 2022, pari 25.800 euro, superiore al dato del 2019, tralasciando di ricordare che quello del 2022 è un dato influenzato dalla fiammata inflazionistica manifestatasi proprio in quell’anno.
Infatti se si guarda – nella stessa tabella del Defr – alla dinamica del reddito disponibile degli umbri, calcolato al netto dell’inflazione, vediamo, per il periodo 2019-2022, un valore medio negativo (-1,4%), nettamente peggiore del corrispondente dato relativo al periodo 2009-2018 (-0,8%), nonostante che nello stesso periodo – 2019-2022 – siano invece cresciute le prestazioni sociali, ad un tasso medio pari a circa il doppio di quanto siano cresciute nel periodo precedente. Insomma, gli umbri si trovano con meno soldi in tasca Viene altresì evidenziata la drammatica situazione demografica, con l’Umbria che presenta un tasso di fecondità pari ad 1,13 figli per donna, molto al di sotto del tasso di equilibrio (2,1), con il conseguente forte invecchiamento della popolazione al quale si accompagna un numero di pensionati superiore ai lavoratori (ndr. Accade solo il w3 regioni d’Italia) Vengono auspicate, come parziale rimedio, un rafforzamento di “..politiche di attrattività residenziale.”, cioè di flussi migratori in entrata. Va dato atto della correttezza di tale analisi, ove si pensi agli orientamenti in materia di flussi migratori che caratterizzano le forze politiche che governano la Regione.
Si diceva che il pregevole lavoro di Banca d’Italia completa le analisi presentate a giugno scorso, di cui si dette conto anche su queste pagine. Nel far ciò conferma le previsioni di rallentamento del ciclo economico regionale, che in ciò si muove abbastanza in accordo con quello nazionale.
Gli indicatori utilizzati da Banca d’Italia segnalano un rallentamento dell’attività economica a partire dalla primavera scorsa, con l’ingresso in territorio negativo nella fase più recente.
Il rallentamento interessa l’industria in senso stretto, le costruzioni e i servizi, con la rilevante eccezione del turismo, che continua a presentare un robusto incremento delle presenze, tanto di italiani quanto di stranieri.
Nell’edilizia il progressivo esaurirsi degli stimoli fiscali viene solo parzialmente compensato dalla crescita degli appalti ad opera degli Enti pubblici, in gran parte finanziati dalle risorse del PNRR. In merito a quest’ultimo vengono censiti interventi – relativi all’Umbria – per un totale di 1,8 mld di euro, cifra sensibilmente inferiore a quanto riportato in varie comunicazioni ufficiali della Regione, comunicazioni che, probabilmente, non distinguono adeguatamente tra gli interventi a ricaduta esclusivamente umbra e quelli di ambito interregionale, che sono poi la parte più rilevante in termini di risorse.
Sempre a proposito del PNRR, nella bozza di Defr viene altresì affrontato l’interessante tema dell’impatto sull’Umbria della riprogrammazione proposta dal Governo italiano alla Commissione, che a livello nazionale vale poco meno di 16 mld di euro, tema questo discusso anche in un recente convegno ad opera della CGIL. La riprogrammazione nazionale, che consiste sostanzialmente nello spostare le risorse di cui sopra a favore del Programma RePowerEU, impatta in Umbria per quasi 98 mil su Interventi per la resilienza, la valorizzazione del territorio e l’efficienza energetica dei Comuni , per circa 87 mil su Investimenti in progetti di rigenerazione urbana, volti a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale e per 7 mil su Aree interne – Potenziamento servizi e infrastrutture sociali di comunità, per un totale di circa 192 mil.
Il lavoro di Banca d’Italia presenta anche le aspettative di breve periodo degli operatori economici regionali, che sono orientate in larga parte al pessimismo; su di esse gravano, inoltre, le possibili ricadute delle tensioni geopolitiche, accentuate dai recenti eventi in Medio Oriente. Da qui un ridimensionamento dei piani aziendali di investimento, su cui incidono negativamente anche le condizioni di offerta di credito improntate a cautela, per il maggior rischio percepito dalle banche. Infine, rifacendosi ai dati della Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat, si segnala che nei primi sei mesi del 2023 in Umbria il numero di occupati è cresciuto del 3,1 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, più della media nazionale (2,0). L’aumento ha consentito di completare il recupero dei livelli pre-Covid e si è concentrato nella componente maschile e in quella alle dipendenze (5,1 e 5,4 per cento, rispettivamente). I lavoratori autonomi, che rappresentano poco più di un quinto degli occupati totali, sono ulteriormente diminuiti (-4,5 per cento). Il tasso di occupazione ha raggiunto il 66,4 per cento (dal 64,7 del primo semestre del 2022). Anche la partecipazione al mercato del lavoro è cresciuta: il tasso di attività ha raggiunto il 71,0 per cento nella media del semestre, un valore superiore rispetto al periodo precedente la pandemia.
Gli aumenti dell’occupazione non pare si riflettano, però, sul reddito disponibile delle famiglie, sollevando quindi qualche perplessità sul valore economico di tali incrementi occupazionali.