di Gabriella Mecucci
Fra poco più di un mese andremo a votare per eleggere il governo regionale, ma pochi sanno come, quando è perché nacque la Regione. E ancora meno conoscono il ruolo da protagonisti che ebbero gli umbri nel regionalismo. E’ proprio così: in questa piccola realtà territoriale si sviluppò un movimento politico e intellettuale che si mosse con ricchezza di argomenti e in anticipo in quella direzione. Due le forze politiche che ne furono artefici: la Dc e il Pci. Con qualche ritardo partecipò poi anche l’anima riformista del Psi, guidata dal ternano Fabio Fiorelli. Tutto accadde fra il 1958 e il 1963-64.
Il governo nazionale, a più di 10 anni dalla Costituzione, non ne applicava il dettato che istituiva le Regioni, mentre l’Umbria del dopoguerra e dei primi anni Cinquanta viveva una fase di povertà e di arretratezza. Fu allora che la corrente fanfaniana dello scudocrociato aprì a livello regionale un dibattito che portò nel tempo a quello che venne definito “il regionalismo senza Regione”. Cioè: non esisteva ancora l’ente, ma c’erano già progetti e contenuti programmatici. Se fu la Dc ad avviare il confronto, il Pci, accantonata l’anima stalinista, ne comprese rapidamente l’importanza. E vi partecipò attivamente.
Andiamo per ordine e partiamo dallo scudocrociato. Di grande importanza fu la rivista “Presenza”, diretta da Ferruccio Chiuni, alla quale presero a collaborare un gruppo di universitari perugini di spessore culturale notevole, aderenti alla sinistra democristiana. I nomi erano quelli di Nicola e Gianni Fogu, di Mario Roych, di Giorgio Battistacci e, più avanti, del moroteo Sergio Angelini. Ma in tutte le città e cittadine della regione spuntavano giovani intellettuali “impegnati”. “Presenza” produsse importanti analisi della realtà economica e sociale dell’Umbria. A questa ricognizione parteciparono anche dirigenti importanti come Filippo Micheli e Luciano Radi, che nel 1956 crearono l’associazione per lo sviluppo economico dell’Umbria.
Parallelamente, un analogo dibattito fioriva nella rivista del Pci “Cronache Umbre”. Ad animarlo fu il nuovo gruppo dirigente dei trentenni: Gino Galli, Pietro Conti, Ludovico Maschiella, Settimio Gambuli, Raffaele Rossi, Ilvano Rasimelli e tanti altri.
Nel 1960 nacque “il Centro regionale per il piano di sviluppo economico dell’Umbria”, a cui partecipavano diverse forze politiche: il comitato scientifico era presieduto da Siro Lombardini, economista vicino alla DC a cui venne garantita piena autonomia di analisi. Accanto a questo c’era un organismo politico-amministrativo nel quale erano rappresentati anche esponenti del Pci e del Psi. Alla presidenza fu nominato il fanfaniano Filippo Micheli e più avanti toccò al socialista Fabio Fiorelli. Fu quello un periodo di grande vivacità culturale e di approfondito dibattito fra i partiti a cui parteciparono anche le forze sociali e numerosi intellettuali: una discussione aperta, dove il confronto era diventato un metodo costante, che andava ben aldilà delle ideologie contrapposte. Da tale effervescenza .- fu il momento di massima vivacità della politica umbra – scaturì il piano regionale di sviluppo. Questo documento, che disegnava il futuro, venne presentato nel 1963 al ministro del Bilancio Ugo La Malfa che lo accolse non solo con interesse ma anche con favore. Non era la prima volta che la “questione umbra” diventava “questione nazionale”. E che questa piccola realtà territoriale portava le proprie ragioni anche a Roma. Un appuntamento molto importante si era già verificato nel 1960, quando il Parlamento italiano dedicò un’ intera seduta all’Umbria e alle proposte che localmente erano state elaborate.
In quei fruttuosi anni a cavallo fra 1958 e il 1963-64 maturarono anche le migliori classi dirigenti politiche e amministrative che la regione abbia mai avuto. La Dc aprì la strada della pianificazione, ma il Pci ne capì rapidamente la rilevanza e fu il partito che con maggiore continuità ne sventolò la bandiera. Riuscì così ad accreditare l’idea di esserne stato il vero artefice. Anche perché a sostegno di questa mobilitò i Comuni e le due Provincie che governava, oltrechè i sindacati. Poi, a partire da ’63, in più di una città – Perugia in testa – i socialisti abbandonarono l’alleanza coi comunisti e la strinsero con la DC, così come era accaduto a livello nazionale. Le proposte di sviluppo dell’Umbria, spesso elaborate insieme, vennero brandite dai comunisti come delle vere e proprie rivendicazioni contro il governo centrale. Rivendicazioni peraltro condivise anche da importanti forze sociali, non solo operaie e contadine.
In tutto quel periodo il Pci si fortificò elettoralmente: già nel 1963 diventò il primo partito della regione scavalcando lo scudocrociato. E nelle elezioni regionali del 1970 raggiunse il 42 per cento. Presidente della Regione diventò Pietro Conti, comunista e ingraiano di ferro, che guidava una giunta composta anche dai socialisti. Un’alleanza questa che andrà avanti senza vere crisi sino alla fine del Psi. Nel 1972 fu varato lo statuto regionale, artefice del quale fu Giuliano Amato, allora ordinario alla facoltà di Legge dell’Università di Perugia. L’Umbria entrò in una stabilità di governo che sembrò non dovesse finire mai. “Rossi per sempre”, scrisse Ernesto Galli della Loggia. Ma in politica nulla è eterno. E il ricambio è la via maestra della democrazia.
Ciò che contraddistinse il periodo che portò alla nascita della Regione fu una grande capacità di analisi e di proposta da parte di tutte le forze politiche principali. Oggi, a poco più di un mese dalle elezioni umbre, non sono stati ancora messi in campo, né dall’una né dall’altra parte, progetti concreti. Al massimo sono stati identificati ambiti di intervento. Sarebbe bene recuperare il costume politico di dire ai cittadini che cosa si vuol fare, in modo da consentire loro di esercitare la libertà di scelta sapendo a cosa andranno incontro. Al “regionalismo senza Regione” si è sostituita – e non da ora – la “Regione senza regionalismo”. Un pericoloso vuoto di idee che esalta solo la lotta per il potere.