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di Giulio Massa

Le parole e i silenzi. Nell’orwelliana neolingua tramite la quale si sta realizzando la vigliacca mistificazione e rimozione delle realtà belliche che, su più fronti, ci circondano, l’uso delle parole e dei silenzi è cruciale. Parole ansiogene e colpevolizzanti applicate selettivamente e strumentalmente a talune situazioni, ma non ad altre, fragorosi silenzi che accompagnano episodi ben più scomodi di altri ai quali la macchina dell’infotainment dedica invece un clamore assordante.
La cronaca degli ultimi giorni è generosissima di esempi.
Nel giro di un paio di giorni, Putin avvia esercitazioni con armi nucleari tattiche vicino al confine ucraino e fa trapelare il proposito di ridefinire unilateralmente i confini sul mar Baltico. Contemporaneamente, il portavoce del Pentagono Patrick Ryder riferisce che, il 16 maggio scorso, la Russia ha lanciato nello spazio un dispositivo in grado di distruggere i satelliti nell’orbita terrestre. Per giunta, “la Russia ha posizionato questa nuova arma nella stessa orbita di un satellite del governo statunitense”. Per non farsi mancare nulla, infine, Putin rimuove a suo piacimento le boe sul fiume Narva che separano il territorio russo da quello dell’Estonia.
Chiudete gli occhi e provate ad immaginare quali reazioni scatenerebbe una simile raffica di iniziative belliche in ipotesi assunte dallo schieramento atlantico. Provate, più di tutto, ad immaginare le geremiadi che si alzerebbero qui, in Italia, nel ventre molle
del già flaccido Occidente, nell’epicentro dell’irenismo più vigliacco ed opportunista, dove il persistere di ideologie giurassiche, dal fasciosovranismo al veterocomunismo fino ad un cattolicesimo oggi apparentemente dominato da cascami della teologia
della liberazione, produce un irriducibile effetto di estraneità e ostilità all’Occidente.
Gli italiani hanno alcune paroline magiche, dei sostantivi passepartout grazie ai quali risolvono ed esorcizzano la loro refrattarietà, la loro insofferenza e voglia di rimozione verso dinamiche nel rapportarci alle quali fondiamo mirabilmente opportunismo, complottismo, populismo, beceri ideologismi assortiti. Per la sfera economica, ad esempio, questo ruolo è svolto dall’eterna e malefica “speculazione!”. Per l’ambito geopolitico, la parola d’ordine è, invece, “escalation!”. Ecco, se quello show di aggressività l’avessero inscenato potenze occidentali, avremmo assistito al coro stridulo dal repertorio fisso: “escalation!”, “umanità sulla soglia dell’Apocalisse!”, “fermare subito questa follia!”.
Insomma, esattamente le litanie, con qualche variazione sul tema, che ci stanno sommergendo in queste ore a fronte dell’esortazione del Segretario generale della Nato, Stoltenberg, a rimuovere il surreale divieto imposto a Kyiv di usare le armi
occidentali per colpire in territorio russo le centrali da cui partono gli attacchi all’Ucraina. Litanie ripetute, senza ritegno alcuno per la complicità morale che così realizza, nello stesso giorno in cui la Russia colpisce, di sabato pomeriggio, un affollato centro commerciale a Kharkiv.
Invece, per quel filotto di iniziative belliche infilato da Putin e sopra descritto: nulla.
Silenzio. Nessun panico da escalation.
Perche’? Le ragioni sono essenzialmente due. La prima è che, per una bizzarra perversione ideologica, la mitica escalation è riferibile solo al campo occidentale ed atlantista. L’escalation è comunque una responsabilità esclusiva dell’Occidente: è
l’Occidente che la provoca o che la deve comunque evitare. Se altri, da Putin ai cinesi fino ai tagliagole di Teheran e ai loro svariati proxy, la fomentano, siamo nell’ambito di disegni geopolitici che vanno esaminati, si dice, con lucido realismo e non con spirito
di crociata. Poco importa, per questi analisti della domenica, se poi le uniche crociate che si vedono in giro per il mondo sono quelle per imporre il Russkij Mir o per eliminare l’”entità sionista” in nome del jihad.
In secondo luogo, basta analizzare un po’ la nostra informazione per verificare come, salvo qualche provvidenziale eccezione, Putin si prenda i titoli più grandi non quando semina morte, predispone inquietanti minacce o chiarisce inequivocabilmente i propri obiettivi, ma quando pronuncia parole attentamente studiate a misura del wishful thinking pacifista da noi dominante e pronte per essere usate da alcuni “pupazzetti prezzolati” al fine di condizionare il giudizio dell’opinione pubblica sulle responsabilità della guerra e sulle prospettive di pace. Parole, insomma, atte a dividerci, a indurre l’idea di supposte volontà negoziali e poi smentite a stretto giro dalla sostanziale richiesta di resa ucraina e/o dalla strage di civili di turno.
Ma alle parole manipolate e usate strumentalmente, come “escalation”, si aggiungono i silenzi.
Laddove i silenzi sono quelli riservati, in particolare da una certa intellighenzia, ad episodi scomodi, capaci di incrinare la narrazione dominante.
E’il caso ad esempio dell’occupazione islamofascista dell’università di Torino culminata nella preghiera condotta da un imam e condita con un discorso antisemita che incitava al Jihad contro Israele. Il tutto con tanto di rete metallica per segregare
lateralmente le ragazze e con l’imam che, mentre indottrina, tiene lo sguardo esclusivamente sull’uditorio maschile.
Un episodio che potrebbe essere un nefasto turning point nel tentativo di islamizzazione della società italiana, ma rispetto al quale in teoria dovremmo disporre di abbondanti anticorpi. In teoria non dovremmo avere nulla da temere. Non solo,
infatti, le nostre università pullulano di custodi inflessibili della laicità che magari si fanno dettare una delibera da un collettivo propal, ma che nel 2008 respinsero la presenza alla Sapienza di un mite Papa il quale incidentalmente era uno dei maggiori
intellettuali dell’epoca. Ma, soprattutto,siamo circondati da una compagnia di giro intellettuale, mediatica e politica composta di seriosi e inflessibili antifascisti in servizio permanente effettivo, di guardiani wokisti pronti a cogliere violazioni della parità di
genere intesa in mille e più declinazioni. Tutta gente, insomma, pronta a scatenare mobilitazioni e campagne anche per quell’apparente nonnulla che, loro lo sanno, è l’ennesima “torsione democratica” verso la deriva neofascista. Tutta gente, per
intenderci, che sul comodino ha eternamente “Il fascismo eterno” di Eco.
Il problema è che, evidentemente, hanno letto Eco, ma non Houellebecq. Da giorni, infatti, attendiamo vanamente non una mobilitazione, ma almeno uno straccio di appello della compagnia di giro contenente la condanna del gravissimo fatto di Torino.
Già le immaginavamo le firme in calce, in pratica la nazionale del team “è sempre 25 Aprile”: Barbero, Rovelli, Montanari, Caracciolo, Di Cesare, Bompiani, Orsini, Bersani, Giannini, Scurati, Gruber, Santoro, Canfora, Tarquinio e ci perdonino i molti dimenticati (anche noi dobbiamo difenderci, ricordare tutto talora può essere troppo doloroso).
Ancora niente, tuttavia. Ma possiamo immaginare la ragione: la stesura delle premesse sulla “comprensione delle ragioni profonde della protesta”, sulla “necessaria contestualizzazione dell’accaduto” e, soprattutto sulle immancabili, ataviche
“responsabilità storiche dell’Occidente” li sta verosimilmente sfibrando.
Ma il tempo non manca: come ha anodinamente riferito il rettore dell’ateneo torinese Genua in un’imbarazzante intervista a La Stampa, l’università è “fuori controllo” (“quali i prossimi passi per gestire l’occupazione? Attendiamo che vadano via”).
Cose che capitano: ti concentri sulla resistenza all’invasione degli Hyksos meloniani e nel frattempo i fondamentalisti islamici si prendono il controllo di qualche università. Ma il tutto, alla fine, ha uno spiccato sapore antioccidentale che alla compagnia di giro non disturba affatto.
Così, tra parole manipolate e rumorosissimi silenzi, la neolingua avanza e le tragedie belliche diventano farsa appena varcati i confini. Poi, un giorno, la Realtà arriva.