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di Ida Meneghello

Pierre Goldman non è simpatico: è sprezzante, guarda beffardo non solo il pubblico e i giurati, ma anche i suoi avvocati che fanno di tutto per difenderlo, si alza continuamente dalla sedia dell’imputato e interrompe chi parla per proclamare la sua innocenza con frasi apodittiche tipo “sono innocente perché sono innocente”. Insomma Pierre Goldman è l’essenza degli intellos arroganti che non piacciono alla gente, con le loro giacche stropicciate, i loro sguardi sfuggenti e provocatori che tutto sanno e tutto giudicano, peggio di un presidente di Corte d’Assise.

E proprio nell’aula di una Corte d’Assise si svolge per quasi due ore il film scritto e diretto da Cédric Kahn “Il caso Goldman”, arrivato in questi giorni nelle sale direttamente da Cannes 2023, dove aprì la sezione “Quinzaine des Cinéastes” e che ha meritato al protagonista Arieh Worthalter il premio César come miglior attore. È dunque una classica pellicola processuale che racconta fatti realmente accaduti, un genere che in Francia ha raggiunto la perfezione assoluta meritando gli applausi della critica europea.

Quale sia l’epoca dei fatti è evidente fin dalla prima inquadratura, la fotografia è studiata nei minimi dettagli, ogni particolare in questo film, dall’abbigliamento degli attori alle luci e agli arredi, è maniacalmente esatto: ci immergiamo nei colori spenti e impastati delle pellicole anni 70, gli anni di piombo in Francia come in Italia.
Novembre 1975, gli spettatori entrano insieme al pubblico nell’aula della Corte d’Assise dove si celebra il secondo processo all’imputato Pierre Goldman, ebreo polacco ed estremista di sinistra accusato di quattro rapine avvenute nel 1969, di cui una finita nel sangue con l’uccisione di due farmaciste in boulevard Richard-Lenoir a Parigi (per inciso, al civico 132 è l’indirizzo di casa del commissario Maigret).
L’imputato non nega le rapine, anzi ne rivendica la legittimità, ma rifiuta con veemenza l’accusa di essere un assassino, un gangster forse sì ma mai un assassino. A contraddirlo sono le testimonianze apparentemente schiaccianti portate in aula dall’accusa, anche se col procedere del dibattimento allo spettatore è chiaro che i conti non tornano, che c’è una pregiudiziale non detta nei confronti dell’imputato, perché ebreo, perché di sinistra, e perché è un intellettuale che negli anni in carcere, dopo la condanna in primo grado, è diventato famoso pubblicando il libro “Memorie oscure di un ebreo polacco nato in Francia”.

Il caso Goldman non è dunque così semplice come appare all’inizio né l’imputato è riducibile a uno stereotipo, perché dietro l’accusa di rapina a mano armata e omicidio c’è un uomo che si sente perseguitato a causa delle sue origini come fosse un “nero”, e che dunque a ragione non si fida dei giudici e della polizia che fa cantare contro di lui un coro greco di testimonianze contraddittorie, ma non si fida neanche del suo legale, ebreo come lui ma “un ebreo da salotto” (Georges Kiejman, interpretato dal bravissimo Arthur Harari).
Goldman non fa niente per ingraziarsi i giurati pur sapendo di rischiare la testa, al contrario si vanta delle scelte di una vita sbagliata che presto deraglia in una vita criminale: la madre rivoluzionaria che lo abbandona in Francia per tornare nella Polonia sovietizzata da Stalin, l’infatuazione per Fidel e per il Che, la scelta di entrare nella guerriglia in Venezuela, tutto questo per seguire in fondo le orme del padre partigiano di cui Pierre è orgoglioso, l’eroe straniero che ha combattuto per la libertà dei francesi in cambio di niente.

È un film sul pregiudizio “Il caso Goldman”, un film coraggioso che non concede niente a quella spettacolarizzazione che pubblico e critica esigono e che i festival premiano, non c’è neanche una nota di commento musicale che distragga lo spettatore dalla riflessione sull’importanza delle parole e sulle trappole del linguaggio giuridico.
Ed è un film inevitabilmente attuale. Al di là della storia che schierò accanto a Goldman Simone Signoret, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, c’è un evidente richiamo ai giorni bui che stiamo vivendo. Per dirla con Luigi Locatelli, “renderei obbligatorio il film a tutti coloro che, con l’alibi dell’antisionismo, accomunano in automatico, e ignorando colpevolmente il passato, l’ebraismo alla destra estrema”.