di Sud
Verso la metà del XV secolo cominciò a diventare di moda tra i letterati italiani il genere della satira. Non che nei secoli precedenti si fosse abbandonato del tutto, e basti pensare alla verve satirica di tanti passi della Commedia di Dante. Ma lo spirito di Giovenale e Orazio si era per così dire trasferito nella poesia didattica e in quella burlesca e giocosa. Furono proprio i primi volgarizzamenti dei grandi satirici latini a far partire la scintilla.
La terzina di endecasillabi, strumento efficacissimo della poesia dantesca, fu il metro usato dai traduttori e poi dagli autori per rendere la musica dell’esametro latino. I nomi degli scrittori di satire in volgare sono oggi quasi dimenticati; tutti tranne uno: Ludovico Ariosto. Ne scrive sette, tra il 1517 e il 1525, in anni difficili, di amarezze e contrasti coi suoi “padroni” estensi. Furono pubblicate soltanto nel 1534, un anno dopo la sua morte.
Le Satire di Ariosto sono fortemente incentrate su temi autobiografici, sviluppati in uno stile solo apparentemente colloquiale e “mediocre”. Anche quando sembra narrare alla buona le sue giornate, il poeta ci fa sentire, a volte anche senza parole, la critica dei costumi del suo tempo, della corruzione e della dissolutezza. Un’opera volutamente “letteraria”, come testimoniano le tante correzioni autografe e i nove anni di lavorazione.
Un topos delle Satire di Ariosto, ripreso come altri dal modello oraziano, è quello della moderazione alimentare. Niente tordi, starne o cinghiali alla sua tavola, ma una ricetta semplice e attualissima. «A casa mia» – dice il poeta – « mi sa meglio una rapa / ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco / e mondo, e spargo poi di acetto e sapa». La sapa, per chi non lo sapesse, è uno sciroppo densissimo ottenuto dalla lunga cottura del mosto d’uva.