di Sud
Se c’è ancora qualcuno che crede nel mito «dell’Italia all’italiana, bonaria, che si arrangia», segua il consiglio di Gianfranco Contini e legga la trecentesca Cronica dell’Anonimo romano. Nel 1940 il grande filologo pubblicò su un articolo intitolato Invito ad un capolavoro, in cui sottolineava la straordinaria energia espressiva della Cronica, dovuta soprattutto a un romanesco arcaico, molto simile ai dialetti meridionali e non ancora “toscanizzato”.
Ma ciò che fa dell’Anonimo romano l’autore di un vero e “moderno” capolavoro è soprattutto il suo essere stato «il descrittore dell’Italia tragica» (scriveva ancora Contini). Un’Italia raccontata per eventi, con un ritmo cupo e spigoloso, concreto e minuzioso; un’Italia crudele, violenta e sanguinaria, come la folla, che ieri esaltava Cola di Rienzo e il suo sogno di libertà, e oggi trascina per le strade di Roma la sua carcassa dilaniata.
Siamo nell’ultimo e più corposo dei 28 capitoli della Cronica, quello più celebre e spesso pubblicato a sé, così da mettere in ombra il resto dell’opera, che ebbe rare edizioni complete, edulcorate nel testo. Fino al 1979, quando un allievo di Contini pubblicò per Adelphi l’edizione critica. In uno degli episodi meno cruenti, ma sempre ombrato di tristezza, si legge il “Miracolo delle fave” (che forse ispirò a Manzoni la “Parabola delle noci” di Fra’ Galdino).
Siamo alla metà del Trecento, tempo di pesti e carestie, e «tutta la poveraglia de Roma» fugge nelle campagne. Tutti i ricchi proprietari li scacciano, tranne uno: Ianni Macellaro. Questi fa sapere che i suoi campi di fave sono a disposizione e che tutti ne «manicassino a piacere», risparmiando però i fusti, che dovevano servire da foraggio. Ma al momento della battitura il miracolo: invece di paglia, «granne abunnanzia e frutto in quelli fusti».