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di Lucio Biagioni

In un tardo dopocena a casa di amici, spaparanzato sul divano in attesa che qualcuno pronunci per primo il canonico ragazzi andiamo è tardi che domani si lavora, sono incuriosito da un paio di vecchi fascicoli in display sul tavolino d’appoggio. Ne apro uno a caso e ne esce una pagina a due colonne, sovrastate dal taglio alto di una foto in bianco e nero, nella quale, un po’ confusa dalla stampa mediocre, si avvinghiano corazze, uomini, cavalli, lance, frecce, mazze, in un impasto indistinguibile e ferale. È la Battaglia di Paolo Uccello custodita agli Uffizî. Scrollo indietro, si fa per dire, per vedere l’inizio dell’articolo: è intitolato “I battaglisti italiani”. E non nascondo il mio stupore quando, approdato alla copertina stile Beltrame in cui, nella luce radente dell’alba, sono raffigurati cinque soldati, i volti travisati da elmetto, maschera a passamontagna e occhiali protettivi, guardinghi e tònici dietro un cespuglio intorno ad una mitragliatrice, scopro che si tratta di un numero de “La Lettura/ Rivista mensile del “Corriere della Sera” – non quella che sappiamo noi dal 2011 in poi, ma la prima serie. La data è il primo maggio 1918. Siamo ancora in guerra. Aspettando l’11 novembre e l’armistizio di Compiègne. “Sono interessanti?”, m’interroga premuroso il mio ospite. “Me le ha regalate ieri un amico. Ha svuotato un garage del padre che conservava tutto, anche le riviste del nonno, Che roba sono?”
Torno ai Battaglisti Italiani. Al pezzo che l’autore racconta essergli stato ispirato da una visita alla Galleria delle Battaglie al Castello di Versailles, fatta in compagnia di un illustre scrittore francese in un “mirabile pomeriggio d’autunno”, quando la Guerra non era ancora scoppiata e di essa, dice, “si parlava come di un fatto sempre meno possibile. Tempo quasi beato per l’umanità”, ricorda nostalgico insieme a quei raggi di sole che filtravano dalle vetrate antiche, “il cui valore, per forza di contrasti, oggi soltanto stimiamo a pieno! Così che la visione di quella lunga serie di quadri che di guerre e battaglie rievocavano glorie ed orrori suscitava tutt’al più soltanto una raffinata compiacenza estetica!”
Ricordando lo sciovinismo dello scrittore illustre che gli magnificava l’indiscussa superiorità francese dei battaglisti francesi sugli italiani e di ogni popolo, l’autore lo nega e ribatte che “anche nella pittura battagliata noi abbiamo insegnato al mondo e, almeno sino a tutto il Seicento, possiamo vantare un indiscusso primato.” Ma di mezzo c’è stata, e c’è ancora la guerra. Trentun paesi coinvolti e cinquanta milioni di uomini. E i tanti morti. L’estetica si sbiadisce, il nazionalismo pure. Passa puntualmente in rassegna quadri e nomi, quasi per abbozzare di già i tratti di quella storia dei battaglisti italiani, che, dice, sarebbe per molti riguardi interessante e importante. (Á propos: quasi un secolo dopo, nell’estate 2011, si tenne a Villa d’Este di Tivoli una mostra dedicata a “La pittura di battaglia dal XVI al XVIII secolo”: dai grandi maestri – Leonardo, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Tiziano, perfino Raffaello Sanzio, la cui dolcezza nell’autoritrarsi e ritrarre madonne e santi e fornarine e cherubini non gl’impedì di disegnare i cartoni del viscido carnaio della battaglia di Ponte Milvio, benedetto da arcangeli in volo armati di spada – ai battaglisti patrocinati dalle grandi famiglie aristocratiche d’Italia: dal “Michelangelo delle Battaglie” Michelangelo Cerquozzi, per citarne alcuni, a Jacques Courtois alias Giacomo Cortesi il Borgognone, da Aniello Falcone che a Napoli dipinse tenzoni tra i Cristiani e i Turchi, a Francesco Antonio Simonini a Venezia: il quale rappresentando una gran zuffa a spade sguainate di una ventina di persone impennacchiate a cavallo e a piedi, collocò, fatto inaudito, all’estrema sinistra della tela uno strano Arlecchino appollaiato su un albero, che, quasi invisibile e in atto di darsela a gambe, getta un’occhiata più che preoccupata al gran macello che si svolge di sotto.)
Il nostro autore ripete sì che la guerra è la tremenda necessità della stirpe di Adamo, capace di mobilitare tutti i sentimenti supremi della storia dell’individuo e dei popoli, e che l’anima del pittore di battaglie dev’essere “eccitata e anèla come quella d’un soldato che muova all’attacco”. Ma è una frase di rito. L’esperienza non ancora conclusa di quattro anni di guerra vera gli smorza ogni “calore bellico”. Non pensa più alle “atmosfere rosse di sangue e di fiamme e risonante di ruggiti, di urla e di gemiti”, evocate in quel lontano pomeriggio a Versailles. Alla fine si arrende: “Tutti, al finir della guerra, avremo necessità assoluta di raccoglimento e di calma per rifarci press’a poco un mondo”. Ed augurandosi che “l’arte, una volta giunti alla pace, si avvii piuttosto verso aspirazioni serene e confortanti”, cita persino il “Canto dell’Amore”:

“Noi troppo odiammo e sofferimmo: amate!
Il mondo è bello e santo l’avvenir.”

(Non così qualche giorno fa una storica firma di punta del Corsera, dunque centosei anni dopo quel supplemento. Paragona i contendenti delle guerre attuali a specie animali diverse, tipo polpi giganti e squali, o giaguari e linci, messi i primi in un acquario, i secondi in una gabbia. Che pensate che facciano, giaguari e linci, in quella condizione, se non cercare di sopraffarsi a vicenda? E la stessa cosa faranno polpi e squali. Illusi quindi i molti che non solo vorrebbero la fine dei combattimenti, ma addirittura – frasi di circostanza per rassicurare il pubblico che li ascolta – il definitivo passaggio da uno stato di guerra a uno stato di pace. È il ritorno alla chetichella del famigerato darwinismo sociale.)

Missili Arrow, Fionde di David, Bombe Plananti, UAV, Missili Balistici, Missili Tahaad, Iron Dome, ABABIL-T, che per chi non lo sapesse è un Drone che buca le difese). Drone ucraino contro elicottero russo. Un caso unico nella storia militare. Bombe a grappolo RBK. Non conoscono crisi l’industria e il mercato della guerra. Vuoi sapere quali sono gli otto fucili da cecchino più pericolosi? Seimila testate puntate contro l’Occidente. Il nuovo progetto Manhattan, un sistema di atomiche al passo coi tempi, che costerà, aggiustato all’inflazione, il doppio dell’altro (Oppeheimer il film ha aperto la strada), ma il doppio ogni anno, e su una scala di trent’anni. E flotte aeree e navali cinesi che disegnano intorno a Taiwan “uno scenografico cuore pregno di un’assediante passione letale.” È il giornalismo, il battaglismo multimediale di oggi. Il tecnicismo bellico ha invaso la comunicazione, martellante e ubiquo. Tutti interessati al saper tutto delle armi. La guerra, almeno per chi ancora la riguarda al sicuro e da lontano, è simile ad un gigantesco, eccitante videogioco.

Nella primavera del 1806, a Venezia, nel salotto della contessa Isabella Teotochi Albrizzi, s’incontrano la nobildonna, il giovane Ugo Foscolo e l’attempato Ippolito Pindemonte, letterato e poeta di modesta fama classificato campestre e bucolico, alle prese da tempo con una traduzione dell’Odissea, che, data la proverbiale lentezza con cui lavora, è di là dal vedere la luce. La conversazione cade sull’editto napoleonico di Saint Cloud (1804) esteso all’Italia, che proibisce le sepolture entro le mura delle città. È cosa risaputa nell’ambiente che Pindemonte sta da un po’ scrivendo sull’argomento un poema in ottave, intitolato “I Cimiteri”, ma al solito, chissà quando finirà. Foscolo, ignaro, tende l’orecchio. Bella idea, questa dei Cimiteri. Profonda. Al tempo stesso attuale e millenaria. Per farla breve: zitto zitto, il Foscolo decide di rubare a Pindemonte l’idea. La vicenda del plagio è tortuosa, spassosa persino. Non per Pindemonte. Che resta fulminato quando, poco tempo dopo, esce la nitida edizione de “Dei Sepolcri”, addirittura spacciata come una sorta di epistola dedicata a lui (“O Pindemonte”), che n’era all’oscuro. I suoi poveri “Cimiteri” rimangono là nel cassetto, sepolti per sempre. Lì per lì s’infuria del raggiro, ma è troppo mite (“mesto”, lo chiama il Foscolo) per darlo a vedere. Sbollito il disappunto, perdona il plagiario. Fa di più. Gli risponde addirittura con un poemetto (intitolato, ma va, “I Sepolcri”), che supera, se non certo nell’arte, perlomeno in lunghezza quello foscoliano. (Nel complesso la storia è poco edificante e inclina a dar ragione alla famigerata quartina che al poeta di Zante indirizzò Vincenzo Monti, “Questi è il rosso di pel Foscolo detto/ Sì falso che cangiò fino se stesso…”, e all’antipatia che sempre n’ebbe Gadda.) Va da sé che la differenza di risultato poetico nei due carmi è (a favore del Foscolo) incommensurabile.
Ma non è questo il punto. Il carme di Foscolo è classico, adotta convenzionalmente il sublime guerresco. Balenar d’elmi e di cozzanti brandi. Fumar le pire igneo vapor, corrusche. Di falangi un tumulto e un suon di tube. D’armi ferree vedea larve guerriere. Un incalzar di cavalli accorrenti. Scalpitanti su gli elmi ai moribondi. Ilio raso due volte e due risorto. La poesia, ai tempi del soldato Foscolo, è battaglista, come la pittura. È un paradigma, il codice di una cultura che genera pensieri e comportamenti.

In una lettera (epistola) in versi a Isabella Teotochi Albrizzi, che si era domandata se la responsabilità di una Europa sconvolta dalle guerre non ricadesse anche su quel pressoché unanime coro d’intellettuali e soprattutto poeti e vati che nella guerra magnificavano le sorti e la necessità, Ippolito Pindemonte dà piena ragione all’amica. È una stagione questa, dice, in cui nessun poeta che sia armato non di una “spada micidiale”, ma solo “d’innocente cetra”, può essere ascoltato e accedere al tempio della gloria”. Perché “or regna Marte”. Si apprezza soltanto “quell’arte cruda/ Che l’omicidio ed il furor consacra.” E questo, aggiunge, “non è in gran parte de’ poeti colpa?” Quale soggetto è infatti loro più caro che “forti scontri di guerrier feroci/ colpi assestati con funesta cura,/ ingegnose ferite e stragi industri?”.
Ma non è soltanto la poesia Ugualmente colpevoli sono pittori e scultori. E poi tutti quegli artefici che producono oggetti utili per un tempo di pace, però adornandoli di simbologie che esaltano la guerra (“Tele dipinte/ effigïate argille/ Metalli incisi, serici trapunti,/ Di scudi ed elmi, di lorìche e spade/ Pompa barbara fan: tutte quell’arti/ Che la pace nutrìca, esaltan l’armi.”) E colpevoli sono anche quegli storici, che si deliziano descrivendo le battaglie (“Non vedi come in mezzo all’urto esulti/ Dell’opposte falangi e delle rocche/ Folgoreggiate su i fumanti sassi/ Storica penna?”). “Con i suoi distruttor congiura il mondo”, dice Pindemonte. È un pensiero unico cui non soltanto opporsi è difficile, ma anche rischioso. Tant’è che, scrupoloso com’è, premette all’Epistola una nota per giustificarsi di fronte a coloro cui “sembrerà difetto parlar contro la guerra, derivando dall’armi in gran parte la difesa e l’onore della nazione.” Ma la poesia, aggiunge, ha un dovere, quello di guardare la realtà anche dalla “men bella sua faccia”. La poesia e le arti e le scienze sono il segno distintivo della natura creativa e cooperante dell’uomo, che ha prodotto civilizzazione e culture. Come possono esse “far barbara pompa di sé”, applicate alla guerra? Sarebbe la negazione dell’umanesimo, dell’appartenenza fraterna ad una unica specie, che trova se stessa solo nel suo essere nella Natura. Tutte le guerre sono “guerre civili”, fratricide, proprio per il “fraterno laccio” con cui la Natura avvolge tutti: “E non è il proprio sangue,/ non le viscere sue che l’infelice/ Forsennato mortal lacera e sparge?”. Lo ribadì, Pindemonte, anche in una dimenticatissima perché non più ristampata, Avvertenza al Lettore della sua traduzione dell’Odissea, in cui si dice (con toni pre-leopardiani) che è la Natura, “che non cangerà stile”, a formare l’uomo, e non viceversa; e che la Natura, com’essa è e non come certi contemporanei se la vogliono rappresentare, è la sua unica via di salvezza e nobiltà.
È un concetto forte, controcorrente, per uno che passava per mesto poeta bucolico (ma campagne e selve e giardini sono per lui difesa del Creato), e guardava invece (anche grazie al suo amico astronomo Antonio Cagnoli) alle immensità del cosmo, alla “gran macchina dell’universo senza confini, il cui centro è dappertutto e la circonferenza in ogni luogo.” Ma tutti que’ mondi”, si chiedeva, “sono abitati? Havvi una spezie particolare di creature in ciascuno?” Anche qui, nel suo pacifismo fondato sull’etica della Natura, non lo sfiora neanche l’idea di una possibile “guerra dei mondi”. C’è il rispetto della diversità, aperta alla comprensione dei diversi gradi di sviluppo ineguale degli esseri. In tempi guerreschi, Pindemonte scorge addirittura la possibilità di cooperazioni astrali fra un mondo e l’altro, fra un pianeta e l’altro, aliena da ogni idea di conquista e sopraffazione rapace: che bel mondo sarebbe – esclama – quello, ove ci avesse questa condizion sola, che ciascuno coltivasse e fosse collocato secondo l’indole del suo proprio talento!
Utopia? O che abbia ragione l’Arlecchino in cima all’albero?