di Flavio Fusi
Preghiere nei templi, manifestazioni nei parchi, scolaresche in corteo e un tripudio di bandiere, bandierine e vessilli tricolori. Così – con una esplosione di giubilo e orgoglio nazionale – l’India celebra la sua grande conquista del terzo millennio. La luna è patriottica, tra Mumbay e Nuova Dehli: Chandrayaan 3, il “viaggiatore lunare” è atterrato sul nostro satellite alle 14,33 di mercoledì 23 agosto, e in queste ore – proprio in queste ore – il piccolo infaticabile rover Pragyan si aggira nella regione del Polo Sud lunare alla ricerca – tra l’altro – di preziosi giacimenti di acqua ghiacciata.
“L’India è sulla luna”, annuncia il presidente-quasi-a-vita Narendra Modi. Ma attenti ai tempi e ai luoghi: il leader indiano esulta in diretta televisiva dal vertice dei Brics di Joannesburg, dove – sotto l’attenta regia di Pechino – un pugno di nazioni del sud e dell’est del pianeta tenta faticosamente di creare una comunità economica e politica alternativa all’unilateralismo occidentale egemonizzato dagli Stati Uniti.
E nella capitale sudafricana, a fianco dell’esultante leader indiano, siedono i dignitari di Putin, assai contrariati – corrucciati – per il quasi contemporaneo fallimento della missione della sonda russa Luna-25, tristemente rovinata sul suolo del nostro satellite solo pochi giorni prima del trionfale allunaggio indiano. Così il commento ufficiale dell’Agenzia spaziale Russa Rosmocosmos è insieme un grido di dolore e un annuncio di guerra: “dimostreremo al mondo che la Russia è in grado di trasportare un carico sulla luna”.
Alleati, si, ma rivali. Del resto, questi sono tempi di guerra e sotto le buone maniere diplomatiche si nasconde a malapena la ruvidezza degli argomenti e degli interessi contrapposti. La pazza idea di un blocco anti-occidentale – nata all’indomani dell’aggressione russa all’ Ucraina – convive faticosamente con le strategie, le aspirazioni e le frustrazioni di Stati tanto diversi dal punto di vista economico, storico e sociale: dall’Iran degli ayatollah all’Argentina peronista, dal Brasile del socialista Lula al complicato Sudafrica di Cyril Ramaphosa, fino alla riluttante Arabia Saudita con un piede in due staffe. La compagnia appare più come un autobus a Roma nelle ore di punta: tutti dentro a sgomitare, poi – si spera – ognuno scenderà alla propria fermata.
Dunque, la Luna. Che è un ottimo argomento per rinsaldare il fronte interno e sventolare la bandiera dell’orgoglio nazionale. Ne avrebbe davvero bisogno la Russia di Putin, impantanata in una guerra incauta di cui nessuno oggi sa prevedere l’esito: la Russia di Putin, con i suoi settantamila chilometri di frontiere, il suo inverno demografico, la sua economia sull’orlo di una crisi di nervi.
E della luna ha bisogno – eccome se ne ha bisogno – questa nostra India caduta da tempo sotto la malia dell’incantatore di serpenti Narendra Damodardas Modi. Un leader assoluto e un miliardo di esseri umani: un antico gigantesco e straordinario Paese che lo scrittore Araving Adiga ha definito “sterminata stia per polli”, ingabbiato dal sistema delle caste, ammutolito e condannato a una avvilente miseria.
Per dire: per l’ India di oggi la luna è più vicina del Kashmir, e qui in Occidente – ma solo in Occidente – sappiamo che rischia il carcere a vita il giornalista Fahad Shah, arrestato a febbraio con l’accusa di “sedizione e terrorismo” per un articolo sugli scontri a fuoco in questa infelice regione: il Kashimir indiano. Contro quest’uomo il giudice agita come una mannaia un minaccioso comma della legge sulla prevenzione delle attività illegali. Giornalismo e informazione come terrorismo: oggi, nel Paese del Mahatma Ghandi, di Nehru, di Indira Ghandi, di Salman Rushdie, il cronista che sfida la censura o si allontana dalla narrativa di regime rischia persecuzione e arresto, pestaggi e morte.
Ma oggi è tempo di festa, in India e nella comunità scientifica mondale. Del resto, quale migliore immagine di pace, serenità, placida bellezza: “ne garde la lune aucune rancune”, la luna non serba mai rancore. Il Mare della serenità, la pallida compagna come antidoto alle guerre e alle dispute armate, ai confini e alle frontiere insanguinate. Bisogna dire forse che nei decenni il mito si è un po’ ossidato. Nel nostro Occidente non è più il tempo di “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”, la canzone che accompagnò la prima passeggiata del pioniere Neil Armstrong.
Da tempo ormai gli Stati Uniti hanno rinunciato alle eclatanti missioni nazionali: troppo costose per il bilancio statale, le sconsiglia l’analisi costi-ricavi. Largo ai privati, dunque: i magnati e miliardari in cerca di emozioni e pubblicità. Largo ai passi da formica della scienza, alle missioni congiunte, agli equipaggi misti. Così appassisce la retorica identitaria, e forse è un bene, in società che pretendono di essere e mantenersi imperfettamente democratiche.
Quanto a noi anonimi terrestri, ci sia pure concessa una modesta nostalgia: eravamo bambini e poi ragazzi, ci scambiavamo i francobolli colorati dell’avventura lunare, imparavamo a memoria i nomi degli intrepidi esploratori. E di fronte al mistero del cosmo abbiamo anche noi sognato il futuro del pianeta con le stesse parole del nostro eroe contadino, Yurij Gagarin: “Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere né confini…”