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di Paolo Petroni

Il termine Nostalgia all’origine ha un fondamento spaziale perché a coniarlo fu Johannes Hofer nel 1688 nella sua Dissertatio medica de nostalgia, riferendosi alla psicologia dei soldati svizzeri in servizio lontani dalla patria. Un sentimento quindi legato all’emigrazione, ma che col tempo ha preso anche una valenza temporale legata al rimpianto dolceamaro di qualcosa che è passato e non c’è più, a un’inquietudine e insoddisfazione del presente, una memoria, spesso travisata, di un’epoca migliore e di un deterioramento della realtà, del mondo in cui si vive.
Quel che spesso riguarda singolarmente gli individui più anziani, nostalgici della propria giovinezza, nonostante la celebre perentoria affermazione di Paul Nizan: “Non permetterò a nessuno di dire che quella è la più bella età della vita”, si trasferisce oramai anche a livello sociale. Ricordiamo il film di Andrej Tarkovskij Nostalghia del 1983 che analizza questo sentimento ambivalente con uno stile concreto e rarefatto al tempo stesso, nel quale memoria personale e collettiva si mescolano, scambiandosi fisionomie e ricordi. Così è celebre il quadro Nostalgia di René Magritte il cui significato profondo per molti studiosi è legato all’incapacità di tornare all’infanzia, periodo spensierato e sereno, con la libertà di quelle ali sulle spalle dell’uomo, come a voler volar via, librarsi in quella luce cui è rivolto il suo sguardo, mentre alle sue spalle è accucciato un leone con la sua tranquillità e forza presente. Comunque il quadro è datato 1940, anno in cui il pittore dovette fuggire dal Belgio occupato dai nazisti e cominciando a vivere con nostalgia un periodo critico, difficile.
Nei periodi di gravi crisi come è certamente quello in cui viviamo oggi, tra guerre e problemi economici, è facile nascano quindi discorsi nostalgici, una memoria consolatoria su un trascorso che a posteriori si ricorda come migliore e felice, usati anche come strumento politico. Non a caso negli ultimi tempi sono usciti alcuni libri che rivisitano il passato e in particolare i cosiddetti favolosi anni Sessanta del Novecento, quelli in cui sembrò il mondo si stesse rinnovando, quelli dei giovani e la contestazione del passato sull’onda del boom economico, con una rivoluzione dei costumi che dette l’impressione di entrare in una nuova epoca. Ha iniziato Maria Luisa Agnese con Anni Sessanta – Quando eravamo giovani (Neri Pozza, pp. 172 – 17,00 euro) e poi è arrivato C’era na volta l’Italia – Gli Anni Sessanta (Feltrinelli, pp. 602 – 35,00 euro) di Enrico Deaglio con Ivan Carozzi, ai quali potremmo dire che può far da introduzione il volume a più interventi La politica della nostalgia – Il passato come sentimento e ideologia (Marsilio – pp. 160 – 18,00 euro) a cura di Cristina Baldassini e Giovanni Belardelli. Il libro della Baldassini e Belardelli, con saggi di Cristina Baldassini, Giovanni Belardelli, Fabio Bettanin, Giovanni Borgognone, Alfonso Botti, Maria Elena Cavallaro, Stefano De Luca, Ernesto Galli della Loggia, Loris Zanatta, ci fa notare come non sia da oggi che la politica usa la nostalgia di un passato idealizzato per suscitare consenso in momenti difficili, come è accaduto, scrivono, nel 2008 con la crisi economica internazionale e nel 2016 col contraccolpo della Brexit, la vittoria di Trump in Usa e il recupero della suprematismo bianco, mentre Putin rimanda alla grandezza passata della Russia. Da noi si incita invece all’orgoglio nazionale, si stigmatizzano le migrazioni, si cerca di negare la nostalgia per un passato che invece sbuca da tutte le parti in citazioni lessicali e lapsus involontari. “La nostalgia è un sentimento collettivo capace di condizionare e plasmare la politica contemporanea, qualcosa che si sviluppa a partire tanto dall’alto che dal basso: consiste nel consapevole uso politico del passato, ma designa anche orientamenti dell’opinione pubblica che sono, almeno in parte, spontanei”.
Senza tornare al Ventennio con tutta la sua portata anticostituzionale, ecco che sono allora i “mitici” anni Sessanta a essere rivisitati, forti della loro spinta al rinnovamento e alla crescita economica (anche se finirono con la grave crisi petrolifera-economica del 1973). Oggi la stragrande maggioranza degli italiani sono persone che erano adolescenti in quegli anni o che l’hanno sentito raccontare dai loro genitori. Quello della Agnese è quasi un amarcord personale, in cui, per temi, iniziando con famiglia, scuola e vacanze, per arrivare alla politica attraverso musica, costume, cultura, restituisce anni di davvero grande e vitale fermento, sino alla “perdita dell’innocenza” con la bomba alla banca dell’Agricoltura a Milano a fine ‘69. Un ritratto in cui è evidente una coscienza del proprio tempo e del proprio ruolo, un desiderio di partecipare e rinnovare che oggi davvero pare perso, scritto anche citando testimonianze di altri, o inchieste come romanzi e film, tra l’apertura dell’Autostrada del sole e l’arrivo della lavatrice, i Beatles, i Rolling Stones, la minigonna, poi i Kennedy, ma anche Bob Dylan e il Vietnam, offrendo un utile indice dei nomi, chiudendo con Alberto Sordi, re della commedia all’italiana, che ricorda intervistato da Veltroni: “avevamo l’idea che avessimo risolto tutti i problemi e l’unico rammarico è che non era vero”, chiedendosi se si fosse trattato di un bluff o di una reale possibilità “cui qualcuno o qualcosa ha messo i bastoni tra le ruote”.
Proprio, si può dire, giocando e miscelando questa ambivalenza ha lavorato invece Deaglio che, con ottica di cronaca storica e gran ricchezza di racconti con a corredo numerosissime immagini, procede per quasi 600 pagine in ordine cronologico, partendo dal 1960. È l’anno dell’uscita de La dolce vita, ma anche di tante, emblematiche morti da Fausto Coppi a Fred Buscaglione sino a Adriano Olivetti, mentre si forma il governo Tambroni con l’appoggio degli ex fascisti del Msi. E così di anno in anno sino al 1969 con l’espulsione di quelli del Manifesto dal Pci, la contestazione, l’autunno caldo, Nada che canta Ma che freddo fa! e infine la bomba di Piazza Fontana il 12 dicembre con la storia ufficiale e quella vera sulla creazione di falsi colpevoli come Valpreda e Pinelli. Curiosità, fatti, testimonianze scorrono come in una lunghissima carrellata rischiando di mettere un po’ tutto sullo stesso piano. Del resto, si avverte nella presentazione iniziale, oggi su Google c’è tutto e così le note sulle fonti utilizzate, la bibliografia è stata ridotta al minimo e non c’è un indice dei nomi, “per suggerire ai lettori di farsi scrittori e ricercatori essi stessi”, e questo non ci pare difficile pensare che conseguenze possa avere, quali risultati. Vero è che, come si è detto, da un punto di vista storico, la costruzione mentale di un passato immaginario è stata spesso una strada per affrontare i momenti di incertezza, ma negli ultimi anni sta assumendo proporzioni globali e preoccupanti. Allora conviene ricordare cosa della nostalgia dicono gli psicologi che ritengono sia un sentimento che dà conforto, soprattutto nei passaggi più difficili e in quelli di transizione tra un’età e un’altra, divenendo il filo di una continuità nella memoria e, puntando su ciò che abbiamo amato, dona la forza, la spinta per cercare di andare vanti verso nuovi obiettivi.
Allora la commedia di sogni non realizzati, di omissioni e iniziative mancate dei protagonisti dei racconti, uniti a formare un romanzo, di Anna Violtaggio, intitolato La nostalgia che avremo di noi (Neri Pozza, pp. 146 – 16,00 euro), che sono quelli di una generazione (anni Ottanta), è il resoconto di occasioni perse, di una mancanza di vero impegno, che, viste appunto con la nostalgia del dopo, forse possono far riflettere e tornare la voglia di esserci e andare avanti.