Meno proteste e più proposte. I dati dell’aggravamento della crisi del sistema
di Francesco Menichetti*
Introduzione
La sempre più frequente lamentazione dell’utenza che denuncia liste d’attesa infinite per eseguire accertamenti di laboratorio e radiologici, visite specialistiche, o per ricevere prestazioni terapeutiche, anche chirurgiche, si accompagna solitamente alla denuncia di dover trovare soluzione ai propri bisogni ricorrendo al privato, pagato di tasca propria.
Questa situazione è purtroppo reale e riassume, in modo sommario ma icastico, uno degli aspetti più eclatanti della crisi del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e Regionale (SSR).
Istituito nel 1978 come Servizio Sanitario Nazionale, per superare il vecchio sistema mutualistico e garantire gratuità, equità ed universalità, poi regionalizzato nel 92/93, dopo oltre 45 anni, mostra una crisi strutturale indubitabile e progressiva.
Le cause sono molteplici e tra loro embricate: progressivo definanziamento della spesa sanitaria a fronte di un costante incremento della domanda, carenza ed invecchiamento del personale, inadeguato aggiornamento tecnologico ed informatico, modello gestionale a budget fisso e molto politicizzato, mancata riforma della scuola medica e dell’accesso alle scuole di specialità, sono nel lungo elenco e rappresentano, almeno parzialmente, i nodi che andrebbero sciolti per tentare di salvare un sistema sempre più orientato a diventare da servizio pubblico a sistema misto, con ampio concorso del privato.
Il problema delle risorse
Il Fabbisogno Sanitario Nazionale è in costante crescita (da 105 miliardi di euro nel 2010 a 134 miliardi nel 2024) e le previsioni sono anch’esse in incremento. Il 25% del nostro cassetto fiscale (di chi le tasse le paga, ovviamente) è destinato alla spesa sanitaria, ma solo il 6,2% del nostro PIL finanzia la sanità pubblica: le allocazioni di fondi aggiuntivi riesce a malapena a compensare il tasso d’inflazione.
Nessuno degli ultimi governi ha impresso il netto cambio di tendenza necessario (l’obiettivo sarebbe di riuscire ad allocare il 7.5 % del PIL) che inverta la tendenza e garantisca al SSN i fondi necessari.
Nell’anno 2023, degli oltre 176 miliardi di spesa sanitaria complessiva ben 45 miliardi sono rappresentati dalla spesa privata (40 miliardi) o intermediata (5 miliardi), con la componente pubblica in flessione e quella privata in aumento (comparazione 2022-2023).
Le principali voci di spesa sono l’assistenza sanitaria per cura e riabilitazione (75 miliardi), l’assistenza sanitaria a lungo termine (13 miliardi), la farmaceutica e gli apparecchi terapeutici (oltre 20 miliardi), tutte voci in incremento, mentre in flessione risultano le spese per i servizi di prevenzione delle malattie (che non raggiungono gli 8.5 miliardi).
Tra i paesi del G7, l’Italia è quella con il trend di spesa sanitaria pro-capite più basso e, rispetto alla media OCSE (38 paesi), la spesa sanitaria italiana pubblica risulta al 21° posto, mentre quella privata al 12° posto.
E’ chiaro quindi che alla crisi di risorse pubbliche corrisponde una costante crescita della spesa privata diretta o intermediata (assicurazioni, fondi) che non è alla portata di tutte le famiglie italiane, generando fenomeni diseguaglianza sino alla “rinuncia alle cure” che cozzano ovviamente con i principi stessi di un sistema che dovrebbe essere universale, gratuito ed equo.
Per tali ragioni è opinione diffusa che il nostro Servizio Sanitario Nazionale da pubblico, si stia in realtà progressivamente trasformando in un sistema misto, pubblico-privato.
Il Privato convenzionato ed il Privato diretto od intermediato
Il cittadino si rivolge spesso a strutture private convenzionate che erogano servizi diagnostici e terapeutici per conto del SSN: laboratori diagnostici, servizi di radiologia (ecografie, TC, RNM), Case di Cura che erogano prestazioni chirurgiche e di assistenza medica. Il privato convenzionato riceve un budget annuale da parte delle Regioni al fine di rendere servizi integrativi delle attività del SSN, per supportarlo in ambiti che lo stesso non riesce a garantire al cittadino in tempi ragionevoli.
Le allocazioni di budget che le Regioni destinano al privato convenzionato variano molto e questo influenza la loro capacità di lavoro.
In Umbria, ad esempio, sono circa 34 milioni/anno le risorse assegnate alle Case di Cura, cifra che è costante da circa 15 anni. In Toscana, per fare l’esempio di una regione vicina che ha un solidon SSR, tale budget è estremamente più elevato.
Il privato convenzionato va comunque considerato parte integrante del SSR, deve rispettare precisi standard qualitativi ed è sotto il diretto controllo della Regione, che ha uffici dedicati al controllo della qualità del lavoro da loro svolto.
Il privato diretto e quello intermediato da fondi od assicurazioni opera al di fuori di qualunque convenzione con il SSR, non vi è rimborso di alcun tipo, e quindi il cittadino paga direttamente oppure paga la sua assicurazione, se le prestazioni richieste sono previste dal contratto.
Considerare la sanità privata l’idolo totemico da abbattere ed il principale nemico del SSN potrebbe rappresentare un’analisi politica semplicistica e demagogica: se opportunamente controllato e finanziato, il privato convenzionato può essere invece una importante componente del SSN.
E’ comunque utile ricordare che le aziende pubbliche perseguono il pareggio di bilancio, quelle private, il profitto. Questa antinomia strutturale richiede una gestione armonica e centralizzata da parte dei SSR con regole e controlli precisi che permettano l’armonizzazione delle prestazioni rese.
Le sanità regionali
Il SSN ha dai primi anni 90 affidato alle Regioni la gestione diretta della sanità, allocando annualmente i fondi relativi (la cosiddetta quota capitaria). L’ 80% del bilancio delle Regioni, enti di trasferimento, è rappresentato dai fondi per la Sanità ricevuti dallo Stato. Purtroppo, la regionalizzazione della sanità pubblica ha contribuito a creare ed alimentare disparità rilevanti tra regioni, con un chiaro gradiente Nord-Sud, che, ad esempio, rappresenta una delle principali cause del fenomeno della migrazione sanitaria.
Se infatti esistono regioni virtuose nell’amministrazione della sanità, molte sono quelle in piano di rientro (attualmente Lazio, Abruzzo, Campania, Sicilia, Puglia) o commissariate (attualmente Molise, Calabria) per gravi deficit di bilancio.
Questo significa che la capacità gestionale delle aziende sanitarie è altamente variabile, così come variabile è la capacità politica delle Regioni di governare la Sanità pubblica.
Se poi consideriamo la capacità delle Regioni di garantire ai cittadini i livelli essenziali di assistenza (LEA) abbiamo quattro diverse categorie: le Regioni con punteggio alto (Emilia-Romagna, Veneto, Toscana, Lombardia), quelle con punteggio medio (Piemonte, Umbria, Marche, Lazio, Liguria), quelle con punteggio medio-basso (Puglia, Friuli-Venezia-Giulia, Basilicata, Bolzano, Campania) e quelle con punteggio basso o insufficiente (Abruzzo, Sicilia, Molise, Sardegna, Valle d’Aosta, Calabria).
I LEA, pur con la necessità di un aggiornamento continuo sulla base delle conoscenze e delle evidenze scientifiche, rappresentano il fondamento delle prestazioni assistenziali pubbliche e tali differenze regionali indicano rilevante diseguaglianza per i cittadini assistiti.
Un ulteriore parametro di valutazione delle sanità regionali è rappresentato dalla mobilità sanitaria che genera di conseguenza un saldo positivo o negativo per le stesse.
Le migliori (e cioè quelle che ricevono più pazienti extra-regione, dati 2021) sono Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto; le peggiori Abruzzo, Puglia, Lazio, Sicilia, Campania e Calabria. L’Umbria ha un saldo negativo moderato, che nel 2021 assomma a 31,2 milioni di euro, che la Regione deve rimborsare alle altre sanità regionali per i cittadini che vanno a farsi curare altrove.
E’innegabile che l’indirizzo politico e la capacità gestionale della sanità regionale rivestano un ruolo rilevante: l’Umbria della precedente amministrazione era considerata benchmark nazionale per molti dei parametri esaminati, l’Umbria attuale non lo è più ed è percepita da gran parte dei cittadini come un’organizzazione con efficacia ed efficienza in peggioramento, un luogo dove non si riesce ad ottenere in tempi ragionevoli le cure di qualità che occorrono.
Il personale medico ed infermieristico
Assistiamo ad un progressivo invecchiamento del personale medico che opera negli ospedali, con scarso ricambio, limitate prospettive di carriera, salari insoddisfacenti, posti di lavoro insicuri. Questo sta generando il progressivo abbandono delle strutture pubbliche, che faticano a rinnovare il personale, la cui assunzione è fortemente limitata dai budget aziendali a disposizione e dalle leggi vigenti.
Mancano i Medici di Medicina Generale (MMG) in molte regioni italiane (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Campania e Piemonte ad es.) e questo mette in crisi i tentativi di costruire quell’indispensabile raccordo tra territorio ed ospedale che tanto potrebbe giovare al sistema ed ai cittadini, come l’epidemia di COVID-19 ha ampiamente dimostrato.
Ma la vera crisi è quella relativa al personale infermieristico: gli infermieri sono pochi, malpagati, con un rapporto infermieri/medici di 1,5 contro il 2,6 della media OCSE. Un’emergenza che, se non affrontata e risolta, sarà uno dei determinanti più rilevanti del possibile default del SSN.
Se a tutto questo aggiungiamo la crisi delle Scuole di Specializzazione, alcune delle quali vedono i posti a disposizione risultare molto poco appetibili (ad es. Microbiologia e Virologia, Medicina d’Urgenza, Radioterapia) si può capire quanto sia urgente intervenire sui meccanismi di accesso, sui salari e sugli aspetti legati alle difficoltà di trovare sistemazioni logistiche dignitose ed a prezzo ragionevole nelle varie città universitarie che scarseggiano cronicamente di studentati e campus universitari.
I soldi del PNNR: la Missione 6 Salute ed i suoi obiettivi
La Missione 6 del PNNR prevede e finanzia rispettivamente per circa 7.5 miliardi essenzialmente due obiettivi: 1. la costruzione di reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza territoriale e 2. l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale.
Le Centrali Operative Territoriali (COT) sono strutture che svolgono una funzione di coordinamento della presa in carico della persona e di raccordo tra servizi e professionisti per assicurare continuità, accessibilità ed integrazione dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria, inclusa la rete dell’emergenza urgenza. Previste nel numero di 480 ne sono state realizzate 362 (75%). L’Umbria ha realizzato le 9 previste (100%).
La costituzione di Case di Comunità (1 HUB ogni 40-50.000 abitanti) dovrebbe rappresentare un’organizzazione capillare su tutto il territorio. Ad impronta multiprofessionale (medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialisti, infermieri di comunità e di famiglia, assistenti sociali) garantisce un punto di prima risposta al cittadino, con infrastruttura informatica, punto prelievi, strumentazione polispecialistica e diagnostica di base. Delle 1038 Case di Comunità previste dal piano hanno visto la luce soltanto 268 (26%), nessuna di queste in Umbria.
Il PNNR prevede anche la costituzione di 307 Ospedali di Comunità, strutture modulari di 20 PL ogni 100.000 abitanti, dedicate a ricoveri brevi di pazienti che necessitano di interventi sanitari di media/bassa intensità clinica, dotate di 7-9 infermieri, 4-6 OSS, 1-2 riabilitatori e di 1 medico per 4/5 ore al giorno. Ebbene di Ospedali di Comunità ne sono stati realizzati ad oggi soltanto 56 (18%): nessuno di questi in Umbria.
Ancora una volta il regionalismo non si dimostra strumento di equità per i cittadini.
Dalla protesta alla proposta: che fare?
Sul reperimento di risorse adeguate da allocare alla sanità pubblica è del tutto evidente che una politica di lotta all’evasione fiscale condotta senza infingimenti e senza continui condoni e regalie a chi le tasse non le paga, potrebbe aiutare molto. L’evasione fiscale in Italia è stimata ammontare a 86 miliardi di Euro nel 2021 (era 108 miliardi nel 2015): soldi più che sufficienti a raggiungere l’obiettivo del 7,5 % di PIL per la sanità.
Uno dei punti centrali che mira anche a combattere il consumismo sanitario inutile è ripensare il modello di una sanità pubblica che offre “tutto a tutti, qui e subito”.
È un modello sostanzialmente demagogico ed inefficace, che non tiene conto dell’appropriatezza dell’offerta diagnostico-terapeutica: soltanto interventi di provata efficacia (medicina basata sull’evidenza) potranno realmente difendere (prevenzione) o contribuire a riacquistare (diagnosi e terapia) la salute del cittadino.
Puntare quindi a garantire le prestazioni realmente necessarie ed utili e farlo in tempi rapidi e congrui con le problematiche che il cittadino/paziente presenta sarebbe un formidabile strumento per abbattere le liste di attesa, oggi ingolfate da troppe richieste incongrue.
Questo significa contrastare e limitare il consumismo sanitario: una massa di esami inutili perché non realmente indicati, una quantità indefinita di terapie per le quali non si rilevano indicazioni certe. Così si contribuirebbe a generare al contempo salute e risparmio economico.
Ma certamente l’appropriatezza da sola non basta: è necessario ripensare il modello gestionale delle aziende sanitarie, limitando l’influenza politica nella scelta dei manager, affidandosi, non senza vigilanza e controllo, a tecnici preparati.
Ripensare l’accesso alla Facoltà di Medicina, che oggi pare non tenere conto a sufficienza di un elemento essenziale: la vocazione e l’attitudine personali, con cervellotici test di ammissione che ben poco possono dire della reale natura del candidato. Adottare un modello alla francese, con valutazioni semestrali nel primo anno e indirizzi alternativi potrebbe essere un’opzione da considerare.
Rilanciare la ricerca clinica indipendente al fine di produrre le evidenze che necessitano al continuo aggiornamento dei LEA. Oggi la ricerca è per lo più commissionata dall’Industria Farmaceutica ed ha fini registrativi di nuovi prodotti farmaceutici: occorre andare oltre e supportare la medicina basata sull’evidenza con nuovi dati. Fondi Europei e delle Università destinati alla ricerca possono essere utilizzati a tale scopo.
Incentivare le Scuole di Specialità che più servono e meno risultano oggi appetibili per scarse prospettive di impiego e/o di guadagno. Questo sarà possibile con salari diversificati ed incentivi per gli alloggi (Milano non ha gli stessi prezzi di Perugia o Catanzaro e l’esplosione dei B&B non aiuta certo a calmierare il mercato degli affitti).
Ripensare la regionalizzazione riassegnando allo Stato funzioni sanitarie importanti, per contrastare le gravi diseguaglianze Nord-Sud, lavorando sui LEA, che debbono rappresentare la base comune del SSN.
In questo senso è bene ribadire che qualsiasi progetto di autonomia differenziata che non metta al centro la difesa della salute e la sanità pubblica rischia di approfondire ancor di più le differenze esistenti tra Regioni ad alto e basso PIL (nella classifica del PIL pro-capite l’Umbria è tredicesima con 24.300 euro, dati ISTAT). Valorizzare gli operatori sanitari, garantendo un trattamento economico degno e prospettive di carriere credibili. Pensare ad una riforma che inserisca a tutti gli effetti i MMG ed i PLS nel SSN costruendo e rafforzando quella continuità territorio-ospedale che tanto è necessaria. Lavorare sulla popolazione con una informazione corretta, che combatta le fake-news, ristabilisca la verità sul ruolo essenziale della prevenzione, sia vaccinale che di stili di vita, sin dalla prima infanzia ed a scuola. Ed abituarla a non alimentare e praticare il consumismo sanitario, inutile e costoso.
Riflessioni conclusive
L’ obiettivo di rifinanziare la sanità pubblica al 7.5% del PIL, l’abolizione del tetto di spesa per il personale e la promozione di un grande piano di assunzione di medici, infermieri e tecnici per abbattere le liste d’attesa e rilanciare il SSN è contenuto in un disegno di legge, a prima firma Schlein, mi pare corretto e condivisibile, così come lo sono le direttrici ispiratrici: più prevenzione, più prossimità, più integrazione tra sanitario e sociale, più attenzione alla salute mentale ed alla salute riproduttiva della donna.
Le elezioni regionali dovrebbero essere un momento importante per alimentare un corretto dibattito pubblico sui temi della sanità e della salute. Un dibattito dal quale dovrebbe scaturire un nuovo Patto per un nuovo SSR: la Regione deve riappropriarsi del ruolo di guida politica, avendo chiari strumenti ed obiettivi; il management delle Aziende Ospedaliere e Sanitarie deve essere scelto con cura in base alle competenze, dando priorità ad appropriati obiettivi di salute più che ai vincoli finanziari; i medici devono essere messi in condizione di esprimere al meglio le proprie capacità e competenze; ai cittadini devono essere assicurati i LEA, le prestazioni appropriate, la prevenzione e l’informazione sanitaria.
E’ infine consigliabile non cedere alla tentazione elettoralistica di sostenere che lo sfascio della sanità pubblica sia soltanto colpa dell’altrui incompetenza, indicando la sanità privata come l’idolo totemico da abbattere: questo approccio, magari efficace nella contesa politica regionale, potrebbe risultare politicamente riduttivo.
Occorre invece puntare decisamente sul binomio risorse-riforme, che a me pare la sintesi più appropriata per tentare realmente di salvare e rilanciare, trasformandolo, il nostro SSN.
*Prof. Francesco Menichetti
Presidente GISA
Direttore Sanitario, Casa di Cura Liotti, Perugia.
Già ordinario di Malattie Infettive all’Università di Pisa e direttore della clinica di Malattie infettive dell’Ospedale di Pisa
NdR: i dati sanitari sono in larga parte tratti dal 7° rapporto GIMBE, presentati al Senato della Repubblica l’8 ottobre 2024.