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Nel centenario della radio, in un divertente articolo Renzo Arbore racconta come il direttore Leone Piccioni (1965) la trasformò: da “sorella povera” della tv a “sorella vispa”, per i giovani. C’erano lui, Boncompagni, tanti altri e anche Alberto Sordi

di Renzo Arbore

Nel 2019, all’Archivio Centrale dello Stato, dov’è conservato una parte di archivio di Leone Piccioni, è stato organizzato un convegno dal tiolo Leone Piccioni una vita per la letteratura (gli Atti sono pubblicati nell’omonimo volume edito da Succedeoggi Libri). Tra gli interventi quello di Renzo Arbore, dedicato all’attività di Leone Piccioni negli anni in cui era direttore dei programmi radiofonici della Rai. Lo proponiamo ai nostri lettori in occasione del centenario della radio.

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Di Leone Piccioni, quando da giovane foggiano mi ritrovai a lavorare in Rai, vicino a personaggi di cultura come lui, già mi intimidiva il nome. Anche perché era il fratello di Piero Piccioni, il grande musicista che io, da jazzista, naturalmente amavo e che conoscevo attraverso la 013, la prima band di jazz italiana che aveva ospitato anche Nunzio Rotondo, grande trombettista dimenticato, e con lui il Gotha del jazz nostrano.
Entrai in Rai per concorso come maestro programmatore e questo fu già per me il realizzarsi di una favola incredibile. Sarò costretto, in questo intervento, a un certo autobiografismo per farvi capire com’era la radio prima di Leone Piccioni. Ne parlavamo con l’amico Maurizio Riganti, che insieme a me e a Adriano Mazzoletti – direttore con Riganti per trent’anni del servizio Varietà della radio – è uno dei combattenti e reduci dei vecchi tempi radiofonici.
La radio prima di Leone Piccioni – del “Professore”, perché era così che lo chiamavamo – era una radio con regole ancora molte antiche. Per quello che riguardava la messa in onda delle canzoni, dovevano essere annunciate con l’autore delle parole e della musica: «di Bonagura, Bonavolontà, Buongiorno Amore, canta Nilla Pizzi, con l’Orchestra diretta dal Maestro…». Poi, le stesse canzoni venivano annunciate solo da annunciatori e annunciatrici che avevano studiato dizione a Firenze, erano gli unici autorizzati a parlare allora. Uno stesso disco non si poteva mettere nello stesso programma se non dopo 15 giorni, per evitare quella che gli americani chiamano “la payola”, cioè la mazzetta che i discografici avrebbero potuto eventualmente dare perché un loro pezzo passasse con maggior frequenza. E con una cadenza quindicinale, Mina aveva le stesse probabilità di andare in onda di Isabella Iannetti. Io facevo programmi non firmati: I vostri preferiti, Musica della Sera, Musica da ballo, e le colonne sonore dei programmi di Costanzo e Moccagatta e dei varietà radiofonici. Gli impianti della radio, tra l’altro, erano quelli degli anni Trenta-Quaranta, non dico che risalissero ai Fasci italiani di combattimento, ma erano quelli bellissimi di radica, decò, quindi molto antiquati.
Faccio un passo indietro: quando nacque la televisione si pensò che la radio dovesse svolgere il ruolo di sorella minore, sebbene fosse la più vecchia. E in effetti era lo strumento di coloro che non avevano ancora la televisione e che la ascoltavano la sera vicino al caminetto. Si pensava che l’audience della radio fossero i vecchi, gli anziani. Anche le rubriche, comprese quelle musicali, erano fatte per persone non giovani. C’erano le orchestre, naturalmente anche sinfoniche (e menomale), con programmi meravigliosi (ancora menomale), però erano destinati a un pubblico di quel tipo. Con l’ingresso di Leone Piccioni, che veniva per qualche motivo – forse punitivo, era questa la vulgata – dalla televisione, insieme a un drappello di persone (grandi nomi, come Vittorio Cravetto che aveva portato Lascia o raddoppia prima di Mike Bongiorno, da Torino), improvvisamente la radio diventò l’audience dei giovani. Grazie all’invenzione dei disc jockey – Adriano Mazzoletti, Gianni Boncompagni, Renzo Nissim e il sottoscritto – si iniziò dalla musica. Fummo autorizzati proprio dal Professor Piccioni ad avere mano libera. Prima c’era la commissione ascolto dischi, che era formata da grandi direttori di musica sinfonica, i quali giudicavano i dischi di musica leggera. Fu così che furono bocciati Celentano, Jannacci – che fu preso per pazzo – mentre i Beatles furono descritti come «complesso vocale strumentale inglese con difetti di intonazione».
Con il Professor Piccioni e Maurizio Riganti, noi Dj ottenemmo di programmare i dischi portati da casa nostra che non dovevano passare per la commissione ascolto dischi. Così con Boncompagni utilizzavano i dischi che ci arrivavano dall’America e dall’Inghilterra, li mandavamo in onda anche ricorrendo a trucchi: quando nei testi c’erano parolacce o doppi sensi, noi tossivamo o ci parlavamo sopra. E abbiamo contrabbandato così canzoni non proprio per educande. Benché con la cultura io non avessi molto a che fare – né ce l’ho adesso, se pensiamo che le mie divagazioni culturali sono «lo diceva Neruda che di giorno di suda ma la notte no» – noi sentivamo il Professore nostro complice. Quando ci avvicinò eravamo intimiditi. Capii poi che aveva una benevolenza nei miei confronti, forse dovuta alla mia origine musicale di disc jockey, così mi destinò a programmi con cantanti come Ornella Vanoni, Caterina Caselli, Patty Pravo, Sergio Endrigo che gli piaceva moltissimo. E forse anche per una certa affinità di gusti. Il Professore amava molto il genere femminile… e c’è un episodio divertente che voglio ricordare. Una volta ricevette una cantante che aveva un flirt con me, la quale – forse essendo un po’ corteggiata dal Professore, dichiarò di essere fidanzata. «Con chi?», gli chiese il Professore. «Con Renzo Arbore», rispose lei. «Allora merita di più fare il disc jockey che il direttore della radio!», esclamò lui. Era molto spiritoso il Professore!
Il suo grande merito è quello di aver sdoganato per primo la cultura per così dire “media”, quella delle canzoni importanti, degli artisti importanti, che non erano però quelli appartenenti alla cultura “alta”. Nutriva perciò una predilezione straordinaria per chi lo seguiva su questa strada. E aveva anche amicizie che hanno fruttato molto, come Alberto Sordi per esempio, che tornò a fare programmi alla radio insieme ad altri importanti nomi del grande e del piccolo schermo che ruppero il tabù in vigore prima di quella stagione, cioè che la radio fosse appunto un mezzo di serie B.
Quella insuperabile stagione, Alberto Sordi venne a ricordarla nel mio primo programma televisivo che volle affidarmi Emmanuele Milano nel 1984: Cari amici vicini e lontani, cinque puntate (che ebbero un enorme successo, con una media di 14 milioni di spettatori, e punte di 18) per celebrare i 60 anni della radio, che realizzai con grande partecipazione proprio perché il sentimento a me lo ha insegnato la radio. Naturalmente anche il Professore fu tra gli ospiti d’onore di quel programma. Il palinsesto radiofonico inventato dal Professor Piccioni con i suoi preziosi collaboratori era straordinario, il più bello e duraturo che si potesse immaginare. La domenica c’era Gran Varietà, con un collage di ospiti eccezionali, il Gotha del mondo dello spettacolo italiano; c’erano i programmi musicali che facevano noi disc jockey, Bandiera gialla, Per voi giovani; c’era Hit parade, c’era Chiamate Roma 3131, La corrida. E rimanevano i programmi importanti, come Il convegno dei cinque, i grandi concerti delle orchestre sinfoniche, i programmi che caratterizzavano la radio bella. Era una radio che sarebbe dovuta continuare nel tempo, ma quando arrivarono i “nuovi”, questa volta raccomandati dalla politica, toccarono – e a noi dispiacque moltissimo – quel palinsesto che da allora non è più stato così bello, né così classico come quello di Leone Piccioni. Che è stato capace di trasformare la radio da sorella minore della televisione, a sorella più vispa e più giovane. Soprattutto pensando alla televisione di oggi.
Quella stagione della radio inventata da Leone Piccioni è rimasta nel nostro cuore. Noi – io, Boncompagni – le dobbiamo tutto perché ne abbiamo colto il suo messaggio vero, mescolare la cultura in modo che arrivasse a quelli che, una volta si diceva, «non erano culturalmente attrezzati». I nostri codici erano fare una buona televisione, una buona radio, senza voli pindarici o cultura alta. Codici che oggi, in piena dittatura dell’ascolto, dove si inseguono i gusti corrivi delle persone, si mettono in scena risse sempre in nome dell’audience, non vengono più rispettati. E infatti mi sembra che i “non culturalmente attrezzati” abbiano preso il sopravvento.
Un altro bell’aspetto e molto confortante della mia amicizia con Leone Piccioni è che io l’ho sempre ricordato, ogni volta che ho parlato della radio ho ricordato la sua radio. E puntualmente mi arrivava una sua telefonata, da persona educata e straordinaria quale era. Per me ogni sua telefonata era come una medaglia.

Articolo apparso su Succedeoggi