di Paolo Puppa
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Conosco persone che da giorni non fanno che riguardarsi la finale di Wimbledon, oltre che non perdersi alcun file su You Tube relativo all’evento, tra interviste e commenti vari, a scoprirvi ogni volta nuove inquadrature. Anch’io ho guardato la partita e ho scrutato a lungo gli occhi di Sinner, accesi di una cupa tensione, quasi gravati da una aggressiva determinazione. Un regolamento di conti dopo Parigi. Sì, ho spiato quel furore contenuto e la gioia esibita alla fine col pudore della sua gente, gli abbracci al team, ai parenti, agli amici. Tutto con molto understatement. Il momento soprattutto in cui alza le braccia al cielo, appena eseguito l’ultimo servizio fulminante, mentre il pubblico si alza in piedi e si moltiplicano i cori assordanti che invocano Jannik. Questo, dopo la ritrosia iniziale ad appoggiarlo, per i residui di fake news sul doping e l’ostilità dei giornali sportivi inglesi. O quando si china sull’erba magica del glorioso campo centrale di All England Lawn Tennis and Croquet Club, e la accarezza con piccoli tocchi della mano. Oppure ancora allorché si copre gli occhi, a cancellare lo scempio emotivo provato un mese prima al Roland Garros. Intanto il braccio destro fasciato, dopo l’incidente durante l’imbarazzante match con Dimitrov, su cui campeggia il marchio Nike, a raddoppiare quello del berretto, fa del ragazzo, cresciuto in pochi anni dai ceti bassi della manovalanza turistica della famiglia all’high society di Montecarlo, un misto tra cinico portatore di brand pubblicitari, macchina compulsiva del mercato, e un corpo fragile, ferito, memore di umiliazioni e ingiustizie recenti. Si infittiscono gli inserti in cui lo vediamo come un automa esaltare pasta e caffè, creme solari e telefonie, energetici e conti bancari, orologi e capi d’abbigliamento, il tutto a rendergli per ora 43 milioni di euro all’anno.
A leggersi i commenti sui social si assiste ad un processo avviato di beatificazione, al costruirsi di un mito religioso. L’italiano più celebre oggi al mondo, a dispetto dell’accento poco toscano, riesce in effetti ad unire il paese dei Guelfi e Ghibellini al di là delle divisioni politiche. Trionfando sull’eterno rivale Alcaraz spalanca spazi infiniti al carro del vincitore. Tacciono i detrattori, gli haters da tastiera, che infieriscono puntuali dopo le sconfitte, e dilagano in cambio gli elogi appassionati, le espressioni trepide di venerazione, di riconoscenza, di amore. Tutte le generazioni, tutti i gender, tutte le culture si incontrano e si accalcano in una palpitante condivisone.
Voglia di Dio, da qualche parte, e questo infatti è biondo, o meglio arancione carota, versione magari buddista. In più, il bianco della divisa imposta dagli inglesi a Wimbledon accentua i lati monacali e ascetici del ragazzo, malgrado le saltuarie donnine, associate alla sua persona, maniacalmente riservata. E dunque la lontana e tranquilla Sesto in Val Pusteria diviene una sorta di Betlemme (sempre meglio, in fondo, di una Predappio), dove l’oscura famiglia di montanari alle prese col fine mese si trova ad un tratto catapultata nei riflettori di tutto il mondo, negli acquisti ben consigliati dal manager, fra lotti di terreno, appartamenti, fuori serie, aerei personali. A rivedere le sequenze del match, a partire dalla fine del secondo set, appariva chiaro il destino dei due contendenti. La fisicità dello spagnolo sembra quella di un topo che ha perso la bussola, in grado solo di muovere la testa in senso affermativo, in uno strano dialogo con sé stesso, mentre Jannik al contrario accentua le movenze di un felino, che attende al varco la propria vittima. Ti viene in mente allora la sua vita, l’uscita a tredici anni dalle sue montagne, la discesa a valle, o meglio al mare ligure, al Piatti tennis Center di Bordighera, paesaggio tanto diverso dalla Croda Rossa innevata, e goduta nelle sciate d’infanzia, e le saltuarie telefonate alla madre per accenni di malinconia, interrotti dalla bruscaggine della donna che protesta perché ha da lavorare. Lei camerierina e il padre Hanspeter cuoco allo chalet di fondo valle in Val Fiscalina. La stessa donna che adesso, dieci anni dopo, si vede sullo schermo tra il pubblico, invecchiata nella pelle avvizzita della gola, ma con una sottile treccina teutonica sul capo a confermare il nome wagneriano di Siglinde, lo sguardo sbarrato dalla paura, mentre mastica nervosa una gomma, come fa col ciuccio la piccola nel cartoon dei Simpsons. La medesima bruscaggine del figlio, quando si sbarazza di collaboratori che valuta inadatti alla sua crescita. Al trionfo di costui, si nota l’assenza di rappresentanti del nostro paese. Invece il re di Spagna si mostra accalorato e plaudente nei momenti favorevoli a Carlitos, e poi disperato quando si profila inevitabile la disfatta. Mai disperato però come il figlio del principe William, fedele al suo pupillo, e pertanto sgarbato nonostante la bella Kate al suo fianco si muovesse a scaldare la fredda atmosfera generale. Perché la festa era preparata per lo spagnolo, non per l’azzurro. Solo se ne sta Sinner, nel cerimoniale secondo quanto sancisce la solitudine dei numeri primi. Alle sue spalle, in compenso, palpita un’intera nazione, come nella peggior retorica dei patrioti. Già, ma è così.
Ho giocato a tennis da ragazzo. Ero mediocre ma dotato di un buon passante di dritto. Così ho vinto perfino qualche coppa, finita tra i doni a una morosa poi lasciata e oggi morta. Se avessi sposato lei, oggi sarei vedovo. Ho amato Federer, e apprezzato le pagine del povero grande David Foster Wallace in cui lo scrittore americano coglieva nei suoi gesti bianchi, a dirla con Gianni Clerici, una luce divina. Ho sofferto nel 2019 quando Roger ha sprecato due match point a Wimbledon contro il diabolico Djokovic. I vecchi, si sa, vivono di abitudini, contigui ai vizi, ma meno costosi e meno pericolosi. Difficile è stato stare senza Federer. Poi, a poco a poco, è subentrato Sinner, che nel gioco da energumeno difensivo da fondo campo e nella freddezza da laboratorio (dove ha sciolto la iniziale goffaggine da magro albatros delle cime) ricorda più il tennista serbo che le grazie implacabili dello svizzero. Adesso, assieme a mia moglie, anche lei coinvolta nel culto, e traboccante di pulsioni materne per il giovanotto triste e sempre calmo, assennato ed educato, aspettiamo con ansia gli incontri di Jannik. Anche mia figlia magistrata a Udine e i tre nipoti friulani partecipano a tale enfasi familistica. Del resto, ovunque si notano scene di isteria collettiva. Personaggi dello sport e dello spettacolo in delirio, ripresi in ginocchio mentre piangono di gioia. Proteste rabbiose contro telecronisti giudicati poco tifosi. Perché nel frattempo, grazie all’altoatesino, il tennis arriva a contendere al calcio il primato della popolarità tra gli sport, anche se i costi del primo risultano ben più onerosi del secondo. Una filiera di denaro, se sorgono come funghi dopo la pioggia improvvisati giornalisti sportivi, o meglio astuti influencer che si inventano un mestiere tenendo rubriche su Sinner, e supplicando sempre di porre un like alla fine, nel caso “questo file vi sia piaciuto”. Insomma, il 13 luglio rappresenterà tra qualche anno una data storica?