di Ruggero Ranieri
Siamo quindi alle battute finali. Ottenuto il via libera delle autorità antitrust, sia quella europea che quella turca, Arvedi si accinge a prendere possesso dell’Acciai Speciali Terni, rilevandone la quota maggioritaria dal gruppo Thyssenkrupp che l’ha detenuta negli ultimi trent’anni (con un breve intervallo fra il 2011 e il 2013). E’ un passaggio storico paragonabile per importanza a quello che portò l’acciaieria ternana fuori dalle partecipazioni statali all’inizio degli anni 1990 nelle mani dei tedeschi. Il prezzo di acquisto della AST, su cui esistono solo indiscrezioni, sembra aggirarsi fra i 500 e i 700 milioni di euro, una somma non disprezzabile, pari circa al doppio di quanto era stata valutata trent’anni fa. Nell’ultimo anno, tra l’altro, la società ha un bilancio nettamente positivo e va considerato anche che il mercato dell’acciaio ha visto un notevole rialzo della domanda e dei prezzi che non può che aumentarne il valore. La Terni, insomma, è ancora in salute, sia pure non senza problemi e questa è una caratteristica del sito ternano, più volte nella sua storia dato per spacciato e sempre capace in qualche modo di risorgere e reinventarsi.
Ci sono ancora alcuni nodi da sciogliere: non è chiaro, per esempio, se ThyssenKrupp voglia mantenere una quota di minoranza (si parla del 15%) nella nuova società; mancano indicazioni chiare sulle intenzioni di Arvedi quanto a strategia e investimenti; niente si sa del nuovo gruppo dirigente, anche se si può presumere che l’attuale Amministratore delegato, Massimiliano Burelli, che ha traghettato l’AST negli ultimi difficili anni sarà prima o poi sostituito. Tutti questi interrogativi verranno sciolti a breve. Intanto è utile gettare uno sguardo indietro per capire come siamo arrivati a questo punto, e uno sguardo in avanti per esaminare meglio il nuovo acquirente, che si presenta con credenziali industriali di primissimo rango e può quindi rappresentare per Terni e per l’Umbria una grande opportunità di rilancio.
Il gruppo Arvedi: innovazione tecnologica e crescita produttiva
Il gruppo Arvedi, con sede a Cremona, è un gruppo di media grandezza, fattura, infatti, 2,6 miliardi di euro e non è quindi molto più grande di AST. E’ però un gruppo in forte ascesa, noto per i suoi importantissimi brevetti industriali diffusi in tutto il mondo. Cerchiamo di capirne brevemente la storia, che ci aiuterà anche a prefigurare il futuro di AST sotto questa nuova proprietà italiana. L’Arvedi, o meglio la Finarvedi, come oggi si chiama l’entità industriale-finanziaria che raggruppa tutte le aziende di famiglia, nasce come piccola fabbrica padana negli anni Sessanta e si sviluppa secondo il modello dei mini-mill bresciani e cioè produzione di acciaio al forno elettrico con colata continua, focalizzazione sui prodotti lunghi, nel caso dell’Arvedi tubi di acciaio. A partire dagli anni Settanta, la Finarvedi s’identifica con il suo patron, Giovanni Arvedi che ne prende la direzione dal padre quando aveva poco più di trent’anni negli anni Settanta. Giovanni Arvedi si è costruito un nome caratterizzandosi per una concentrazione quasi maniacale sulla innovazione tecnologica. Pur non essendo un ingegnere, ha cominciato un lungo lavoro di sperimentazione insieme a università, centri di ricerca e aziende impiantistiche soprattutto tedesche fino a mettere la sua firma su brevetti produttivi veramente rivoluzionari. Quale è stata la grande sfida di Arvedi? E’ stata quella di voler infrangere la barriera che impediva alle acciaierie private, basate sul ciclo elettrico-colata continua di entrare nel grande business dei prodotti piani sottili. La siderurgia italiana, ma anche quella europea e mondiale, era, infatti, divisa a metà: da una parte le piccole o medie aziende elettriche che erano arrivate a controllare il mercato dei prodotti lunghi (tondino, vergella, tubi ecc.) con tecnologie semplici, quanto efficienti, adatte a rifornire, anche a livello locale, l’edilizia e la meccanica, dall’altra i grandi impianti della siderurgia d’altoforno con i loro enormi laminatoi che producevano i nastri larghi necessari per rifornire l’industria automobilistica, degli elettrodomestici, delle costruzioni ecc. Per molti anni questa divisione sembrava inattaccabile e i grandi laminatoi, in Italia basti pensare a quelli di Taranto, erano frutto di grandi cicli di investimento: il primo nel dopoguerra, il secondo negli anni Sessanta, sostenuti dall’industria a partecipazione statale. La tecnologia che li aveva resi possibili si era sviluppata negli Stati Uniti negli anni Trenta e si era poi trasferita in Europa Occidentale grazie al Piano Marshall. Gli impianti a nastri larghi erano enormi, richiedevano grandi acciaierie e di una serie di laminatoi in continuo, sbozzatori, finitori ecc., intervallati da forni di riscaldo. Il tutto con un grande consumo di energia, l’occupazione di grandi spazi per complessi produttivi da milioni di tonnellate. La grande crisi della siderurgia degli anni Settanta e Ottanta le aveva colpite in pieno, costringendole a dolorose ristrutturazioni e causando voragini nei loro bilanci.
La sfida di Arvedi fu quella di “compattare il ciclo”, e cioè di arrivare direttamente dall’acciaieria al prodotto finito (il coil), saltando tutte le soluzioni di continuità, agganciando direttamente la laminazione alla colata di acciaio. Sembrava impossibile, e, in effetti, si rivelò molto difficile, per le soluzioni impiantistiche necessarie ma anche per l’omogeneità e l’affidabilità dei risultati. Arvedi vi lavorò per tutti gli anni Ottanta e brevettò una prima soluzione impiantistica, l’ISP (Inline Steel Production) nel 1992. La fase di avviamento, però, fu molto complessa, tanto che Arvedi, oberato dalle perdite, fu costretto a cercare soci che gli consentissero di mantenere in vita l’azienda. Li trovò in Francia (Usinor) e nella comunità degli industriali bresciani (Luigi Lucchini). Continuò così a sperimentare fino a che nel 2004 il nuovo impianto di Cremona cominciò a dispiegare tutte le sue potenzialità. Pochi anni dopo la tecnologia Arvedi si sarebbe ancora raffinata con il lancio di un nuovo impianto, l’ESP (Endless Steel Production) che accelerava ancora il ciclo produttivo, aumentava i volumi, perfezionava i risultati. E’ stato un successo mondiale, con vendita di impianti in tutto il mondo. Arvedi poté tornare alla guida del suo gruppo, diventare uno dei maggiori produttori italiani di prodotti piani, insidiando addirittura il primato dell’Ilva e superare brillantemente la crisi finanziaria dell’ultimo decennio espandendosi invece di restringersi. Il risultato è che l’impianto di Cremona è non solo un gioiello tecnologico, ma un generatore di volumi e di profitti. Rispetto ai grandi centri tradizionali è molto più piccolo, consuma una frazione dell’energia, è flessibile e qualitativamente ottimo. Per intenderci rispetto a impianti di una capacità di 8 o anche 10 milioni di tonnellate annue di acciaio, l’Arvedi può arrivare a produrne tre, con costi unitari però molto inferiori.
Le prospettive del sito ternano
Il successo di Arvedi nella tecnologia dei prodotti piani spiega la forza economica che gli ha permesso, dopo aver tentato nel 2017 di inserirsi nella cordata per acquisire dallo Stato l’Ilva, di negoziare con successo l’acquisto dell’AST dai tedeschi. Non spiega però quali possono essere le eventuali sinergie di questa acquisizione. Intanto c’è da dire che fin dal suo esordio negli anni Sessanta Arvedi è stata presente nel mercato degli inossidabili. Non ha mai prodotto acciaio inossidabile, che acquista ancora oggi sul mercato, ma si è specializzato nei tubi (ILTA Inox) e nel nastro inossidabile di precisione che commercializza in gran parte all’estero (Arinox con stabilimento a Sestri Levante). L’acquisto dell’AST, che è un importante produttore di acciaio inox − oltre a detenere una posizione importante sul mercato italiano ed europeo dei prodotti piani di inox, avvalendosi anche di molti centri di servizio non solo in Italia, ma anche in Germania e in Turchia −, porterà il nuovo gruppo ad avere una posizione di tutto rilievo. In sostanza si tratta per Arvedi di un’operazione di verticalizzazione che completa e integra la sua gamma produttiva e gli permetterà di espandersi verso un mercato molto più ampio. Un punto interrogativo riguarda la produzione di tubi inox; infatti, il Tubificio dell’AST verrà ad affiancarsi a quello di ILTA Inox, con potenziali sinergie ma anche con possibili duplicazioni.
Guardiamo ora un altro aspetto della Arvedi. Nel corso della sua recente espansione essa ha acquistato nel 2015 lo stabilimento di Servola, con lo storico altoforno di Trieste, dismesso dal gruppo Lucchini. Anche in questo caso l’azienda di Cremona ha integrato il suo ciclo produttivo spostandosi all’indietro, acquisendo un produttore di ghisa per alimentare le sue acciaierie. L’acquisto ha comportato diversi problemi legati alle ricadute ambientali di Servola, sempre meno tollerate dalla comunità triestina e ha portato allo spegnimento dell’altoforno e alla sua sostituzione con forni elettrici, il tutto attraverso una complessa trattativa su base territoriale per garantire adeguati livelli occupazionali. In sostanza Arvedi è un attore capace e disponibile a impegnarsi in trattative con sindacati ed enti locali. E questo lascia ben sperare per quanto potrà avvenire a livello ternano, dove pure non mancano problemi ambientali, di viabilità da e per gli stabilimenti, nonché problemi sociali e occupazionali. Avere come interlocutore una proprietà italiana con esperienze analoghe, potrà essere un’occasione positiva, dopo le ripetute difficoltà con gli interlocutori tedeschi. Per fare questo occorrerà però che le amministrazioni regionali e locali, umbre e ternane, riprendano in mano con energia i dossier di politiche industriali, che hanno garantito nei decenni la sopravvivenza e la vitalità del sito ternano.
Infine un ultimo elemento potenzialmente molto importante. Vorrà Arvedi riprendere a Terni la produzione di acciaio magnetico, e in particolare quello di alta qualità a grani orientati? In realtà qualche dichiarazione promettente da parte di Giovanni Arvedi in questo senso si è avuta, ma si attendono conferme senza nascondersi che si tratterebbe di un investimento molto complesso e costoso, ma anche potenzialmente remunerativo e strategico per il sistema industriale italiano.
Del resto la figura stessa di Giovanni Arvedi è sinonimo di soluzioni alla frontiera dell’innovazione in campo siderurgico. Quando tutto il mondo sembra andare verso un’economia di servizi, soluzioni virtuali, riduzione o cancellazioni della manifattura, a Terni sembra aprirsi una prospettiva alternativa, in un certo senso più antica, ma anche nuovissima.
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