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di Carlangelo Mauro

Uno dei più importanti e documentati libri sull’Ucraina è quello scritto dal professor Giorgio Cella (Università Cattolica di Milano): Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi (Carocci Editore 2021, 352 pagine, 36 euro). L’opinione di ciascuno sull’Ucraina e sul conflitto rischia di essere falsata dai post sui social, dai commenti televisivi, da certo giornalismo poco oggettivo se non si nutre delle conoscenze degli esperti dell’Est Europa. Ho quindi voluto, a poco più di un anno dall’invasione dell’Ucraina, dopo la risoluzione Onu votata da 141 paesi per il cessate il fuoco e ritiro dei russi, la condanna della Corte Internazionale dell’Aja, porre alcune domande al noto studioso, riprendendo questioni ampiamente discusse, ma su cui ancora è diffusa una certa disinformazione. Prima di passare all’intervista, un accenno al discorso del 21 febbraio scorso di Putin alla Nazione con cui ha sospeso il trattato Start. Mi sono chiesto, ascoltandolo, come le devastazioni immani dell’Ucraina, le infrastrutture distrutte, i bombardamenti sui civili inermi, possano accordarsi con la retorica dei popoli fratelli di ogni suo scritto o discorso. Popoli fratelli solo se stanno sotto il calcagno del dittatore? Putin, oltre che richiamare il principio della fraternità, ama citare perfino la Bibbia, il Vangelo. In un discorso del 18 marzo 22, il dittatore, citando le parole di Gesù, aveva detto che l’amore più grande è «dare la vita per i propri amici» (in pratica morire in battaglia per il nuovo Zar). Nell’ultimo discorso ha attaccato l’Occidente utilizzando un’altra citazione evangelica: «L’Occidente propone l’idea di un Dio gender-neutral. Perdonali, Signore, perché non sanno quello che fanno». Un dittatore che uccide e incarcera suoi oppositori all’interno (la tradizione in Russia è ben consolidata…), ordina massacri all’esterno, ma parla con le parole del Cristo, richiama il passato più triste del ‘900: le perversioni ideologiche e religiose sono una costante dei dittatori. Anche il tratto sadico non manca: ricordo quando Putin in una conferenza stampa citò, riferiti all’Ucraina, i versi di una canzone: «Ti piaccia o no, bella mia, lo devi sopportare». Era l’8 febbraio 2022, poco prima dell’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio: chi ci
colse il senso agghiacciante di uno stupro necrofilo alla luce di quanto accaduto non sbagliò.

Gentile professor Cella, a poco più di un anno dell’invasione dell’Ucraina, vorrei ritornare sulle cause: c’è chi insiste a tal proposito sull’allargamento a Est della Nato. Lei ha scritto un imponente capitolo su questo tema nel suo libro, in cui parla anche della «promessa infranta», secondo i russi, da parte dell’Occidente…
Su questo tema si è discusso molto negli ultimi mesi, è un elemento della storia dal finire del secolo scorso a oggi. L’allargamento a Est della Nato è stato innanzitutto richiesto dalle stesse ex Repubbliche che facevano parte del Patto di Varsavia; non sono state forzate a entrare. Si pone un problema importante: quello della libertà di uno Stato sovrano di scegliere la sua collocazione nell’ambito di alleanze militari nello scenario internazionale. Questo può portare, ovviamente, a una percezione da parte russa di una maggiore insicurezza sui suoi confini occidentali. Va sottolineato che né l’Ucraina né la Georgia, per quanto avessero una serie di legami anche profondi con l’alleanza atlantica, sono stati mai davvero in procinto di entrare nella Nato: già nel 2008, al vertice Nato di Bucarest, diversi paesi espressero la propria contrarietà, anche l’Italia e la Francia. Eppure i due paesi nei quali la Russia è intervenuta militarmente sono stati propri la Georgia nel 2008 e l’Ucraina nel 2014 con l’invasione della Crimea e il conflitto nel Donbass, poi con l’aggressione a tutta l’Ucraina del 24 febbraio 2022. Per quanto riguarda la «promessa infranta», cui si appella la Russia circa l’allargamento a Est della Nato, essa va collocata nell’ambito dei negoziati del 1990 tra Gorbaciov e gli Stati Uniti circa la questione della riunificazione della Germania: l’Urss cade nel dicembre del 1991, formalmente era ancora in piedi, non si poteva discutere l’allargamento ad Est delle altre Repubbliche che facevano parte ancora dell’Urss. Alla fine però, di scritto non è emerso nulla, intendendo documenti a carattere giuridicamente vincolanti, e questo rappresentò una grande falla nell’azione di Gorbaciov, al di là delle promesse che sarebbero state fatte o meno dagli occidentali.

Una fake molto diffusa sui social, ma anche in tv, è quella dei 13-14 mila filorussi uccisi dall’Ucraina nel conflitto in Donbass, conflitto che avrebbe potuto risolversi con un maggior impegno dell’Occidente. Le cifre Onu, in realtà, ci dicono di 3.300 vittime civili, 4.000 vittime dell’esercito ucraino, 5.700 vittime tra i gruppi armati non governativi separatisti filorussi. Ma sono tanti gli interventi di storici e studiosi che hanno ricostruito le responsabilità russe nel conflitto del Donbass…
Quanto al conflitto sappiamo che c’era una contrapposizione identitaria con i russofili nell’est dell’Ucraina che si sentiva già spostata verso l’Europa dall’Euromaidan (2014) in poi. L’Unione Europea avrebbe potuto fare di più dal punto di vista diplomatico? Possibile, ma è difficile dirlo: i tempi della storiografia per rivedere, approfondire le questioni rispetto ai fatti accaduti sono lunghi. Ci sono stati gli accordi di Minsk, sostanzialmente degli armistizi, stipulati tra Ucraina, Russia e Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), che non hanno retto: il primo (2014) completamente saltato; il secondo (2015), a fare da argine a un conflitto di bassa intensità, è durato a fasi alterne con punti di crisi fino alla scelta scellerata da parte di Putin di una offensiva contro l’intera Ucraina, cosa che neppure gli esperti si aspettavano. I russi, è noto, hanno compiuto delle operazioni di rafforzamento delle truppe filorusse nel Donbass, hanno mosso dei loro operativi; alcuni membri dei servizi, dell’esercito russo sono diventati leader locali nel Donbass. Non è una novità; si tratta di uno schema abbastanza consolidato nella politica estera russa, quello di andare a creare dei territori contesi facendo leva sulla «nostalgia» del potere russo – conflitti congelati o protratti in cui si creano zone grigie di instabilità per interrompere la continuità territoriale di uno Stato sovrano, che sia l’Ossezia per la Georgia o il Donbass per l’Ucraina.

Tutti vogliamo la pace, tanti chiedono di non inviare armi all’Ucraina. Ma senza l’invio di armi dall’Italia e dall’Occidente, Putin non avrebbe occupato tutta l’Ucraina? Si sarebbero moltiplicati eccidi e torture come a Bucha, Izyum ecc., nei territori occupati.
Fin dall’anno scorso nella base militare di Ramstein, in Germania, gli Stati Uniti enunziarono quella che può essere definita una nuova dottrina del containment, o “dottrina Austin” dal nome del segretario della Difesa. Essa delineava le linee guida della reazione dell’Occidente all’offensiva russa in Ucraina secondo una chiara strategia, poi concordata con i paesi del blocco occidentale (che si è dimostrato più unito rispetto alle aspettative): quella di logorare sul campo l’esercito russo per frenarne l’espansione revanchista, per deteriorarne le sue capacità offensive, non per causare un regime change, ma per far sì che non ci fossero repliche della Russia di quanto avvenuto in Ucraina in altri zone e paesi. Ciò implicava l’invio di armi all’Ucraina, uno stato per l’appunto aggredito, per permettergli di difendere il proprio territorio e giungere a una sorta di parità di forze sul campo, anche in vista di futuri – auspicabili – negoziati di pace. Senza l’invio di armi, senza l’assistenza logistica e di intelligence fornita dall’Occidente, l’Ucraina sarebbe stata in condizioni di inferiorità totale di fronte all’aggressore.

Di recente è stata avanzata la proposta di pace della Cina. Le rivolgo una domanda impossibile: quale pace giusta lei immagina che potrebbe garantire la fine di questo orrore?
Non sono io, ovviamente, a poter determinare gli elementi che porteranno la pace in Ucraina. È una questione che sta coinvolgendo il mondo ed è ancora totalmente aperta nel momento in cui parliamo. Quello che stiamo vedendo è la reazione compatta dell’Occidente con il rafforzamento della forza militare Nato, del pattugliamento nel cosiddetto eastern flank, il fianco orientale dell’Alleanza Atlantica; adesso ci apprestiamo a vedere l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Tutti questi sono effetti contrari a ciò che desiderava Putin. Dall’altra parte i russi hanno incamerato alcuni territori ucraini, altri sono ancora in una zona d’ombra, contesi; ricordiamo che Kerson è stata liberata tra gli oblast che Putin aveva già definito sotto il pieno controllo russo. In questa situazione è difficile immaginare ora in cosa consisterà la pace, la quale avviene, come sappiamo, tramite negoziati che hanno come sostanza il compromesso. Bisogna vedere che tipo di compromesso vorranno accettare russi, ucraini, gli occidentali e i cinesi. Questi ultimi con il recente documento, con cui hanno esposto alcuni loro concetti riguardo la guerra in Ucraina e il sistema internazionale, sono entrati anch’essi a far parte dei negoziatori di questa guerra. Attualmente, è da sottolineare, il piano di pace non c’è; non c’è neanche una tregua, che, come ripeto da un anno, è propedeutica ai trattati di pace. La situazione si potrà chiarire fra due-tre mesi, quando si vedranno i risultati del confronto militare che esploderà durante la primavera. Purtroppo questo conflitto a oggi si decide ancora sul piano militare.