di Sud
Carnem cum sanguine non comedetis. Il divieto di mangiare carne cruda, sancito nel libro della Genesi, ha formato il gusto dell’uomo per qualche millennio. Su un’altra sponda del mediterraneo la mitologia e la letteratura greca rafforzavano il concetto, e Polifemo che mangia carne cruda (omofago e antropofago) è creatura non umana.
Gli antropologi del Novecento ci hanno messo del loro, guidati da Claude Lévi-Strauss, che fa coincidere l’uscita dallo stato di natura e l’entrata in quello della cultura (in sostanza il concetto stesso di umanità) con la scoperta del fuoco e la cottura del cibo.
Il consumo di carne cruda, sconsigliato anche dagli igienisti, ha continuato così fino alla fine del secolo scorso a restare confinato nei riti dionisiaci e tribali, nella pratica di creature ferine e leggendarie come licantropi e streghe, e in quella dei tartari, che però in realtà la “cuocevano”, tenendola per giorni tra il cuoio della sella e il dorso del cavallo.
Come è stato possibile allora che in pochi decenni, a partire dai famigerati anni ’80, la carne cruda (e non solo la carne) sia entrata di prepotenza nelle mode alimentari? Mi piace pensare che sia stato merito (o colpa?) dell’arte.
Dalla fine dell’Ottocento Gauguin, e poi Cézanne, e Picasso, e Matisse, hanno inaugurato la stagione del primitivismo, mentre Melville faceva innamorare il mondo “civile” del suo Queequeg. In Italia tra gli anni ’30 e i ’60, Silone e Carlo Levi ci facevano scoprire il fascino “primitivo” dei cafoni, e Pasolini quello dello “Strolic Furlan” e dei ragazzi di vita.
Nell’ultimo mezzo secolo ci ha pensato poi la globalizzazione. Ad esempio ha reso normale che la tribù venezuelana dei Pumé rappresenti il mondo degli dèi come una metropoli occidentale (magari celebrando i suoi riti da McDonald’s), e che da noi una delle mode alimentari più in voga sia la variante paleolitic della dieta “crudista”.