di Sud
Molte ricette ormai entrate di diritto nella cucina romana provengono dalle campagne e dall’entroterra appenninico. Una tra tutte: l’amatriciana. Ce n’è però una che ha fatto il tragitto all’inverso: quella delle “Sette Virtù”. È una ricetta che oggi compare nelle guide gastronomiche come tipica di Teramo e della sua provincia, da prepararsi per la festa del primo maggio.
Il rituale della preparazione prevede sette tipi di cottura, dal soffritto iniziale alla bollitura, per un totale di sette ore; sette tipologie di sette ingredienti diversi: i legumi secchi e quelli freschi, le primizie primaverili, le carni di manzo e maiale, i condimenti e le erbe aromatiche, le paste secche e fresche, e infine sette chicchi di riso di buon auspicio. L’origine del piatto potrebbe essere antichissima, quella del nome meno, visto il suo evidente riferimento alle sette virtù della dottrina cristiana (le tre teologali e le quattro cardinali).
La prima attestazione della ricetta, e la prova della sua “romanità”, è in un libro di Poggio Bracciolini, umanista celebre per le sue scoperte di codici antichi, tra le quali spicca quella del De rerum natura di Lucrezio. La sua raccolta di Facetiae rischiava di macchiare la sua fama di vir gravis, così Poggio, nella prefazione, pensò di giustificarsi della levitas dell’argomento, chiamando a testimoniare i dotti e prudentissimi scrittori antichi, lodati, e non criticati, ai loro tempi per aver scritto opere giocose.
Nella facezia 205 un gruppo di amici parla dei romani e della loro tradizione di cuocere varie specie di legumi, «quae virtutes appellant», per mangiarle la mattina delle calende di Maggio. La battuta di spirito è, guarda caso, di un milanese: «Non c’è da meravigliarsi – traduco dal bel latino di Poggio – che i romani abbiano degenerato dai loro antenati, visto che hanno consumato tutte le loro virtù mangiandosele».