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di Fabio Maria Ciuffini

Nel XIX secolo, ai tempi dell’egittomania – una collettiva infatuazione e una moda – due grandi perugini furono protagonisti di quella grande attenzione per l’Egitto e l’egittologia: Orazio Antinori ardito esploratore che risalì il Nilo Azzurro in cerca delle sue sorgenti ed Ariodante Fabbretti, archeologo, che fu direttore e curatore del Museo Egizio di Torino, uno dei più grandi e noti nel mondo dopo quello del Cairo. Oggi una ben nota scrittrice perugina, Anna Belardinelli, ne ripercorre le orme con un libro (tutti i virgolettati ne sono tratti) che narra di Nefertiti, la bellissima quanto enigmatica faraona egiziana. La sposa di Akhenaton – il faraone eretico – a sua volta padre, ma con un’altra ignota sposa, di Tutankhamon.
Tre personaggi dell’antico Egitto che vissero ed animarono un punto singolare – due decenni appena – della sua plurimillenaria storia. Nefertiti certamente la più bella delle Regine Egizie, raffigurata nel busto colorato esposto a Berlino, “collo lungo, sorriso, profilo sottile”, anch’esso noto come il più bell’artefatto di quell’antichissima civiltà. E poi Akhenaton, che reca nelle mani le insegne incrociate del potere faraonico e la maschera funeraria di Tutankhamon, scoperta da Howard Carter, poco più che un secolo fa, nel 1922.


Tre icone – certamente le più note e celebrate nella cultura di massa – a risarcire oggi – dopo un silenzio durato tre millenni – la damnatio memoriae del nome di Akhenaton, voluta dai sacerdoti tebani. I faraoni eretici, “lei e lo sposo”, Nefertiti ed Amenofi IV, avevano sovvertito l’ordine teocratico che dava il vero potere alla classe sacerdotale. Il giovane faraone si era ribellato ai preti – “lunghi silenzi ed occhi da contabili” – cambiando il suo nome in Akhenaton “Colui che fa il volere di Aton” – il volere del dio Sole, l’Unico, “le cui lunghe braccia elargiscono doni al mondo”. E i due – “insofferenti di giogo … lasciarono Tebe “dalle cento porte”, la Splendida, per fondare una città nuova in un luogo fino ad allora deserto e chiamarla Aket-Aton, Orizzonte dell’Aton”. Una città che “riconosce solo il sole sopra di sé e la legge della verità dentro di sé”, in un luogo dove nessun dio era stato prima venerato e nessun tempio od edificio innalzato
Nel libro di Anna Belardinelli è Nefertiti stessa a suggerire la ribellione al potere costituito, a “sognare una (nuova) città che non c’è” ed a concepire un rapporto nuovo con il suo consorte reale. Un amore reciprocamente esclusivo tessuto di affetto da cui nascono sei figlie, ma non il maschio, l’erede che Akhenaton ha – per necessità e non per amore – con un altra donna e che resta a Tebe, sposa la sorellastra, subisce la restaurazione della classe sacerdotale al vertice del potere e forse detronizza il padre. Ed è Tutankhamon.


E quel rapporto e quell’amore filiale sono illuminati dai raggi di Aton in un’altra famosa immagine in cui sia il faraone che la sua sposa portano in braccio o sulle ginocchia la propria prole, “in modi aderenti al vero che non si erano visti prima né si videro più dopo”
Della città in riva sinistra del Nilo che “doveva essere armoniosa in ogni sua pietra” e che l’autrice perugina immagina voluta proprio da lei, la Regina, confinata in un quadrato perfetto segnato da quattro stele da “non sorpassare per l’Eternità” fu dannato persino il ricordo. Quell’”Eternità” dura meno di una generazione. La nuova città è all’inizio soltanto ignorata: “i barconi carichi di grano scivolano sul Nilo” e vanno a scaricarsi, come sempre, “nei granai del vecchio Tempio”. Poi, nella sua nuova città appena abbozzata, Akhenaton non regge al conflitto con i Tebani fedeli alla classe dirigente sacerdotale. La sua creazione viene distrutta, palazzi e statue abbattuti, né gli ibis la proteggono più “dai serpenti alati che ogni anno volano dall’Arabia”.
Aton non è più l’Unico e torna ad essere un dio come gli altri. E ancora oggi, “il luogo in cui sorse Aket – Aton è il deserto: Tell Amarna”. I moderni abitati che pure sorgono non molto distanti dalla sede dell’antica città sacra al Sole, ignorano quell’antico sito, forse lo rifiutano. Le quattro stele delimitano ancora e per sempre un luogo incolto e maledetto. Né gli ibis lo proteggono più “dai serpenti alati che ogni anno si risvegliano e volano dall’Arabia verso l’Egitto”.
Il lungo racconto è un contrappunto tra presente e passato. Nefertiti, vecchia ormai – “sono anni che non si vede sangue sulle sue pezze di lino” – irrisa dalla servitù, spento “l’orgoglio aspro di straniera”, mentre intreccia – ogni nodo un ricordo – culle da abbandonare poi vuote nella corrente del Nilo, ricorda e ravviva il suo passato di Regina. L’autrice si immedesima nella mente di Nefertiti e ripercorre insieme a lei la sua vita da sposa bambina giunta da un’altra terra che il destino innalza ad un ruolo mai svolto prima né dopo fino a Cleopatra. Narra “tutte le attese, le delusioni gli umori e gli amori, le speranze, il sentito dire, le bellezze, le invidie, il fastidio, le sconfitte, il riguardare indietro, il silenzio” …
E vive – in lunghe pagine tutte da gustare – le glorie di Aket-Aton e le sue, dal momento in cui il Faraone sale su una roccia e decide che una petraia divenga città là dove “tutto appartiene a mio padre Aton, le montagne, le valli gli stagni …” fin quando “la città che non c’è più”, è “abbandonata prima di essere consumata”. Verrebbe da dire, fuori contesto, “Sic transit gloria mundi …”. Una gloria nascosta per tremila anni che rivive nel libro di Anna Belardinelli. Un libro nato da appunti di viaggio rivissuti ed arricchiti come in una visione in cui, Nefertiti, “solo un nome, ma un ricordo tenace”, convive “con l’umanità del nostro tempo”. Un libro da leggere e rileggere senza fretta, punteggiato da autentici antichi testi “scanditi in versi” che sembrano prosa e denso di parole inanellate nella prosa di Anna – ogni riga un verso – che sembrano poesia.