di Sud
Malgrado qualche fonte controversa, pare certo che il primo ristorante cinese in Italia sia stato lo Shanghai, aperto nel 1949 a Roma, in via Borgognona. Era un ristorante per cinesi, come quelli aperti, a partire dagli anni ’60, a Milano e a Firenze. A partire dagli anni ’80 le cose cambiarono. Essendosi diffusa l’abitudine di mangiare fuori casa, soprattutto per il maggiore benessere economico (reale o percepito poco importa), i cinesi ne approfittarono.
Tre fenomeni diedero loro una mano: la diminuzione della natalità, l’incremento del terziario impiegatizio e l’aumento dei viaggi all’estero. I primi due fecero sì che molte vecchie trattorie a conduzione familiare chiudessero i battenti per il mancato passaggio delle attività dai genitori ai figli; il terzo fenomeno ruppe l’isolamento gastronomico degli italiani. I cinesi rilevarono le vecchie licenze e offrirono ai nuovi consumatori pasti esotici e a buon prezzo.
Una prova di quanto la cucina cinese fosse considerata, nell’Italia degli anni ’60, esotica e “strana”, ce la fornisce Goffredo Parise con il suo Cara Cina, una serie di reportage pubblicati sul Corriere della sera, poi in volume da Longanesi nel 1966 e ristampati più volte. Tanto acuto e perspicace di fronte ai fatti della politica e della cultura, Parise, al mercato di Canton, sembra Renzo a Milano. «Nei negozi di specialità regionali non si riconosce niente»; e infatti non ne azzecca una, come ha fatto notare Siegmund Ginzberg nel suo recente Colazione a Pechino. Scambia i nidi di rondine per «carne macinata, cardata come lana e raggomitolata», i funghi per seppie, le oloturie secche per «sassi neri, durissimi e foruncolosi». E infine, da vero turista sprovveduto, si beve la leggenda della “Lotta del dragone e della tigre”, piatto tipico a base di improbabili serpenti e gatti.