di Gabriella Mecucci
Ormai Perugia e dintorni è diventato per le riviste patinate il fashion shire, o cachmere shire. E Cucinelli ne è il suo “profeta”. Dietro a questo mega business che arricchisce e rende famosa l’Umbria, dietro i trionfi di Solomeo c’è una vicenda industriale affascinante, ricca di imprenditori che hanno fatto la storia della moda, che hanno costruito un contesto. Ci sono cioè i “padri” del fashion shire: grandi innovatori del passato che hanno regalato all’Umbria una solida fama di regione laboriosa e elegante. E che ne sono stati “ambasciatori” nel mondo, così come oggi lo è Cucinelli.
I medaglioni dei capitani dell’industria dell’abbigliamento non possono non partire da quello che in passato è stato definito il “re del cachmire”, e cioè Umberto Ginocchietti. Suo nonno Adolfo fu il primo innovatore: negli anni Venti iniziò ad importare i conigli d’angora e, dopo aver filato la loro lana, fondò una delle prime tintorie per la colorazione. Poi vendette tutto a Luisa Spagnoli.
I Ginocchietti vengono dunque da molto lontano e il nipote Umberto, brillante laureato alla Bocconi, colto e talentuoso, diventa ancora giovanissimo direttore della Lanerossi. Poi torna in Umbria e fonda nei primi anni Sessanta il “Lanificio di Perugia”. Rapidissima crescita: i suoi maglioni impazzano in tutta Europa e lui viene considerato sin dall’inizio il fondatore del pret à porter di lusso. Nel 1969 commissiona la costruzione di un grande stabilimento sotto Solomeo che più tardi verrà acquistato da Cucinelli. Gli anni Settanta e Ottanta sono pieni di successi sino ad arrivare ad un gruppo con 1400 dipendenti e 5000 collaboratori esterni. Umberto, dopo aver acquistato diversi marchi umbri (Lanificio Guelpa, Igi..), punta sul cashmere, operazione all’epoca tutt’altro che semplice e scontata. Ormai ha in mano un vero e proprio gigante della moda che collabora con i brand più importanti: Armani, Valentino, Saint Laurent, Dior, solo per fare qualche nome.
Conquista il mondo dello spettacolo. Lavora con modelle come Claudia Schiffer, Cindy, Crawford, Isabella Rossellini e con i più prestigiosi fotografi internazionali. Finisce su riviste come Vogue e annovera fra le sue clienti perfino Jaqueline Kennedy. I più grandi “creativi” lo corteggiano, ma lui resta fortemente ancorato alla sua Perugia che ama e promuove tutte le volte che può. Compra una delle dimore più belle della città, Villa Fontana che era stata dei Cesaroni.
Elegante, colto, amante dell’arte Umberto si ispira per alcune sue collezioni a Kandinskij e a Tiziano. Del grande pittore veneziano acquista per due miliardi, ad un asta che fa notizia, il “Guerriero”: “E un regalo che faccio a Perugia”, dichiara, spiegando che vuole esporlo al pubblico. Rigoroso, introverso, ma anche incline alla polemica, ne fa una molto dura, alla fine degli anni Ottanta, contro gli stilisti milanesi che gli procura non pochi nemici. Alla fine deve scusarsi pubblicamente dalle colonne del “Corriere della Sera”.
La sua grande carriera di imprenditore viene troncata da una grave malattia. E da allora inizia il tramonto del suo impero che trova una qualche continuità in Cucinelli sia per la creatività, che per i luoghi, che per la rilevanza internazionale, che per l’amore per l’arte. Quasi parallela alla vicenda imprenditoriale di Ginocchietti procede quella di Fernando Ciai. Giovanissimo, un po’ controvoglia inizia a occuparsi dell’azienda paterna. Avrebbe preferito fare il giornalista o coltivare la sua passione per la musica e per il canto, ma deve salvare l’impresa. Ci riesce e nei primi anni Sessanta comincia la collaborazione con le grandi firme della moda: Lancetti, Fabiani, John Ashpool. Negli anni Settanta parte il rapporto stretto con Armani che dura più di 13 anni: il successo è straordinario, il fatturato alle stelle, il numero dei dipendenti tocca quota 650. Un periodo d’oro durante il quale Ciai diventa un animatore della vita culturale perugina: è fra i fondatori di UmbriaJazz; e uno dei protagonisti del “Perugia dei miracoli”, sponsorizzandolo per ben tre anni. Tutto bene sino a quando Armani non decide di rompere la collaborazione con le sue aziende. Secondo Fernando Ciai questa “manovra repentina e immotivata” lo condanna al fallimento. Una meteora la sua: rapida, ma illuminata
L’altro grande imprenditore del fashion è Leonardo Servadio, anche lui fra i primi ad intuire le grandi possibilità del made in Italy. Figlio di una famiglia benestante di origine ebraica, subito dopo la laurea, lavora col padre Galliano, grande commerciante di tessuti. Poi nel 1959 inizia “in sordina” l’attività dell’Ellesse. Anche Servadio gioca tutte le sue carte sull’inventiva, sulla creatività. L’abbigliamento sportivo fino al suo arrivo era banalotto e tristanzuolo. Lui crea da subito tute e pantaloni da sci più colorati, più audaci. Nel 1968, mentre divampa la contestazione, Leonardo si fa venire un’idea semplice, semplice, ma per l’epoca molta innovativa: applica all’esterno dei suoi prodotti il marchio di fabbrica, un pinguino in seguito sostituito da una mezza palla da basket. Sembra incredibile, ma il successo della trovata è straordinario: rapida ascesa del fatturato e del numero dei dipendenti che arrivano a quota 1300. Ironico, amante della mondanità, tombeur de femme, Servadio diventa un imprenditore noto in tutto il mondo. Entra in rapporto con i grandi campioni della “valanga azzurra” come Gustav Thoeni e Piero Gros, sino ad Alberto Tomba: tutti fanno i testimonial del suo brand. Poi entra nell’abbigliamento per il tennis e porta a Perugia gli internazionali femminili: sponsorizza le più grandi campionesse del mondo, quali Chriss Evert e Martina Navratilova. E ancora: tennisti come Becker e attori quali Roger Moore.
Successo dopo successo finisce in mostra al Centre Pompidou di Parigi che inserisce il suo design nella grande rassegna dedicata alla creatività italiana. Mentre l’Ellesse è sempre più lanciata, Franco D’Attoma – suo cognato e direttore dell’azienda – diventa il presidente del “Perugia dei miracoli”che arriva secondo nel campionato di serie A e non perde per un anno interno nemmeno una partita. Erano i “grifoni” di Castagner che ebbero in squadra nientemeno che Paolo Rossi. Dopo l’iperbole che l’aveva portato sul tetto del mondo, Leonardo Servadio inizia la parabola discendente. Una lunga vita la sua, coronata da allori e sconfitte, che termina a 87 anni, nel gennaio 2012. Alla Sala dei Notari tocca proprio a Brunello Cucinelli commemorarlo con queste parole: “Un signore elegantissimo, amante del bello e rispettoso della dignità”.
Le radici più profonde e più conosciute del settore dell’abbigliamento sono quelle che arrivano alla famiglia Spagnoli. Una schiatta di imprenditori che nasce agli inizi del ‘900, agli albori cioè del capitalismo umbro. Annibale e Luisa fondano, insieme ai Buitoni, la Perugina. La ormai mitica “signora del cioccolato”, non si ferma lì. E dà vita, all’inizio degli anni Trenta, alla “Lana d’angora”, da cui discende l’attuale azienda dell’abbigliamento. Questa si struttura, cresce e mette profonde radici grazie a suo figlio Mario. Ed è lui all’origine del mito di Luisa: battezza l’azienda col nome della madre e, nei suoi scritti, la ricorda sempre come l’origine di tutto. In realtà è Mario a condurre la “Lana d’angora” al successo e a fare la grande scelta della creazione della rete commerciale. I negozi iniziano a nascere negli anni Quaranta e hanno una straordinaria diffusione nei Cinquanta e Sessanta quando diventano meta elegante e ricercata del jet set, frequentati da attrici come Sofia Loren e Anna Magnani, nonchè da una splendida Liz Taylor stabilitasi a Roma ai tempi di Cleopatra.
Mario Spagnoli si impegna anche nella vita economica di Perugia e ne progetta lo sviluppo turistico. La sua ultima invenzione è figlia di una capacità imprenditoriale che riesce a intravedere prima degli altri il business: si tratta de “La città della Domenica”, un luogo di divertimento per i bambini e le famiglie immerso nel verde. Uno straordinario successo – oggi declinante – che dura per tutti gli anni Sessanta e Settanta, un progetto affermatosi quando Gardaland e simili erano ben lontane non solo dall’esistere ma dall’essere pensate. La capacità imprenditoriale di Mario non è inferiore a quella della madre. Lino, suo figlio, ne continua l’opera: ingrandisce la rete commerciale e dà vita ad un imponente decentramento produttivo, anche in questo caso anticipando i tempi. E’ lui che si impegna inoltre nello sport e porta il Perugia Calcio in serie B. Oggi la Spagnoli, forte delle sue profonde radici, continua a navigare con successo nelle acque della moda, governata da Nicoletta, figlia di Lino. Oltre alla lana e agli abiti, ha diversificato la produzione: borse, profumo e, presto, anche scarpe. Non c’è città italiana sia media che grande dove non abbia un negozio, e 51 ce ne sono all’estero. Recentemente c’è stato un doppio debutto in Cina e negli Usa. Il fatturato supera i 130 milioni e i collaboratori diretti si avvicinano ai 900.
La Spagnoli regge all’usura del tempo: il dna imprenditoriale della mitica Luisa si reincarna. Così come si reincarna quello del fashion made in Umbria: cambiano i protagonisti, ma resta sempre più vincente.