di Gabriella Mecucci
Che la sanità umbra sia in vistosa difficoltà è sotto gli occhi di tutti, ma quando è cominciata questa crisi? I gravi problemi di oggi non sono tutti imputabili agli attuali governanti della Regione, il declino è iniziato una ventina di anni fa e nasce da decisioni prese a Roma: il blocco nazionale delle assunzioni è avvenuto nel 2004. Poi c’è stata la stagione dei tagli lineari: dal 2010 al 2019. Su questo tessuto, già reso fragile, è piombato il Covid. Nel 2019 è arrivato in Umbria il governo del centrodestra che non solo non ha invertito la tendenza, ma l’ha aggravata.
Il sistema sanitario nazionale avrebbe avuto comunque bisogno di rinnovarsi in profondità perché il contesto in cui opera presenta due importanti novità. La prima è che la popolazione italiana – e in particolare quella umbra – vive molto più a lungo. Le malattie croniche, che richiedono un intervento costante, sono dunque aumentate a ritmo
esponenziale. La seconda importante novità è che la scienza e la tecnologia offrono oggi nuove e più efficaci cure che sono però costosissime. Entrambi i cambiamenti sono positivi, ma richiederebbero una sanità rinnovata e che avesse a disposizione più fondi. E invece non è così: l’Italia impiega nel settore il 6,1/6,2 del Pil, mentre la media europea è intorno al 7, e i paesi più sviluppati superano il 9. Tutto questo ha fatto sì che la sanità stia diventando uno dei problemi più importanti del paese. Lo è a livello nazionale e lo è in Umbria che un tempo era fra le regioni meglio attrezzate. Dell’importanza del tema ne sono ulteriore testimonianza alcuni fatti: il centrosinistra per le amministrative di Palazzo dei Priori ha messo in campo una lista di esperti del settore, il candidato “centrista” Massimo Monni ha deciso di considerare questo tema l’asse portante della propria campagna elettorale, il sindaco uscente Andrea Romizi cerca di chiamarsi fuori sostenendo che la questione non è di competenza del Comune e scaricando tutte le responsabilità – che sono anche sue – sulla Regione, mentre Tesei continua a fare
promesse e nomine a getto continuo.
Passiamo dunque, capitolo per capitolo, a ciò che non va nella nostra regione. Si tratta di un elenco parziale, di un parziale dossier da completare, costruito grazie ad una ricerca sui quotidiani (stampati e online) e al contributo di tre esperti: Donatella Giaimo (ex dirigente di distretto sanitario), Piero Grilli (medico di medicina generale), e Daniela Ranocchia (qualità e comunicazione in materia sanitaria).
Gli umbri vanno a curarsi fuori regione. La mobilità regionale è a saldo negativo, cioè sono più gli umbri che vanno a curarsi fuori regione, dei residenti in altre regioni che vengono in Umbria. Questo andamento costa ben 31,2 milioni – il dato è riferito al 2021, ma non risulta che da allora ci siano state inversioni di tendenza. Il segno meno rende bene l’idea del peggioramento della sanità umbra nell’ultimo quinquennio. Nel decennio 2010 – 2019 infatti il saldo era positivo. E la Regione rispondeva bene all’adempimento delle prestazioni Lea (livelli essenziali di assistenza), soddisfatte all’ 85,9 per cento contro la media nazionale del 75,7 per cento.
Mancano medici ed infermieri. In Italia ci sono 35mila medici e 50mila infermieri in meno. In Umbria le carenze si verificano un po’ dappertutto, anche se la situazione non è fra le peggiori se confrontata con alcune realtà nazionali. A livello locale è molto serio il deficit di medici di famiglia: zone intere della regione infatti ne sono prive. Complessivamente a non poterne godere sono circa 90mila umbri. Ci sono episodi poi in cui un dirigente della sanità diventa uno e trino. E’ il caso del direttore di distretto della Media Valle del Tevere, Luigi Sicilia che ha anche altri due gravosi impegni: direttore sanitario della Usl1 e responsabile del servizio prevenzione e protezione aziendale. E questo non è l’unico caso di doppio o triplo incarico. C’è poi il fenomeno della fuga dei
medici che colpisce l’intero territorio regionale e gli ospedali maggiori: in tanti vanno in pensione e alcuni preferiscono trasferirsi altrove perché le condizioni di lavoro sono diventate troppo difficili. Di recente questo fenomeno è stato denunciato a Terni dai sindacati, ma giova ricordare che la Usl 1, che ha dichiarato la propria volontà di contrattualizzare 40 fra specializzandi, neolaureati e pensionati, ha ottenuto la partecipazione al bando di soli 25 medici. L’Umbria è diventata poco attrattiva per questi giovani professionisti. Per fortuna sono state molte di più le domande per 46 posti da infermiere.
Liste d’attesa. L’ultimo dato le colloca a quota 54mila: tante sono le prestazioni ancora da smaltire. Il sindacato dei pensionati ha affermato che, nonostante i numerosi annunci di rinnovato impegno della Regione, la situazione non è sostanzialmente mutata. Ma c’è di più: un terzo degli assistiti che superano i 65 anni avrebbe rinunciato a esami diagnostici e visite mediche specialistiche con notevoli danni per la salute. In Umbria l’invecchiamento della popolazione è particolarmente forte: siamo al secondo posto in Italia, prima di noi viene solo la Liguria. Questi allarmanti dati provengono da una fonte super specialistica come l’Istituto Superiore di Sanità. Non è inutile ricordare infine che i difensori della sanità pubblica sostengono che l’allungarsi delle liste d’attesa, favorisce l’ampliamento di ruolo e di giro d’affari della sanità privata. Una sorta di leva per il suo sviluppo. C’è chi sostiene invece che il pubblico e il privato dovrebbero collaborare e che un certo grado di
integrazione non solo sia possibile, ma persino doveroso. Il problema però è chi governa il sistema e la qualità delle prestazioni fornite.
Urgenze, Pronto soccorso. Le difficoltà della sanità umbra si moltiplicano nelle emergenze. Primo fra tutti c’è il problema del Pronto soccorso dell’ospedale regionale di Perugia dove ormai le file sono interminabili e i malati – così alcuni di loro raccontano – sono spesso costretti ad aspettare ore, mentre il loro stato richiederebbe interventi urgenti. Questo intasamento è dovuto principalmente al funzionamento della medicina territoriale. Le Case di Comunità dovrebbero essere un pezzo importante della soluzione del problema. La legge nazionale ne prevede per Perugia almeno tre: una ogni 50mila abitanti. Per il momento non ce n’è ancora nessuna, ma il piano regionale ne programma due. E’ notizia recentissima che la Usl1 ha acquistato a Monteluce uno stabile di 2500 metri quadrati e che lì nascerà la prima Casa di Comunità. Cosa sono le Case di Comunità? Dovrebbero essere la sede di interventi sanitari di base, di prevenzione e di riabilitazione, e diventare il luogo da cui si dipartono i servizi domiciliari per malati cronici o che comunque possono essere seguiti e curati a casa. Costituiscono circa il 32-33 per cento del totale, anche perché l’epidemiologia con l’allungamento della vita – come già detto – si è profondamente modificata. La Casa di Comunità dovrebbe fornire tutte queste attività domiciliari (infermieristiche e di medicina generale) che oggi sono carenti: a Perugia ad esempio il servizio infermieristico non viene garantito 24 ore su 24, ma solo per 12 ore. L’insufficienza attuale nel territorio determina l’aumento del ricorso ai Pronto soccorsi e ai ricoveri in ospedale con conseguente ingolfamento di questi e con una fortissima crescita dei costi. C’è un dato che rende bene l’idea della carenza in tema di assistenza domiciliare integrata: il Pnrr prevedeva per l’Umbria 12mila interventi di questo tipo entro il 2023, ma in realtà se ne fanno circa una metà. Il raggiungimento
dell’obiettivo è stato spostato dalla Regione al 2024.
Neurochirurgia. Molta preoccupazione ha destato nel mondo medico la decisione regionale di ridurre da due a una le strutture complesse della neurochirurgia. Resterà solo quella di Terni e lì avrà sede il primario che dovrà però fermarsi due giorni alla settimana a Perugia. Il timore denunciato dai più riguarda l’intervento dei chirurghi nelle urgenze. Si teme che molti pazienti dovranno essere operati nella struttura ternana e si fa notare che ci sono punti del territorio regionale molto distanti da quella città. La situazione potrebbe risultare molto complicata nei casi urgenti che si verificassero in luoghi come Città di Castello, Gubbio. Città della Pieve, Castiglione del Lago e via elencando.
Cardiologia di Perugia. Qui di recente si è verificato un episodio che ha destato non poche polemiche. Occorreva infatti sostituire il direttore Claudio Cavallini, andato in pensione. I due cardiologi concorrenti, Gianluca Zingari e Maurizio Del Pinto, sono stati però entrambi giudicati non idonei. La Regione ha dichiarato che in tempi brevi provvederà alla soluzione dello spinoso problema, ma il primariato di cardiologia non fa parte delle recenti 51 nomine.
Terzo Polo. Ci sono pesanti carenze che caratterizzano soprattutto il nosocomio di Spoleto, ma che giocoforza si riflettono anche sul presidio di Foligno. La criticità più nota per il San Matteo degli Infermi è l’assenza della guardia cardiologica h24, che mina pesantemente l’operatività del Pronto soccorso e quindi della classificazione dell’ospedale come Dea di primo livello, che almeno sulla carta è tuttora vigente. Sì, perché a Spoleto dalle 20 alle 8 del mattino continua a non essere presente un cardiologo e questo malgrado il concorso indetto nel luglio scorso dalla Usl 2 per l’assunzione a tempo pieno e indeterminato di quattro professionisti. L’esito della procedura, bandita specificatamente per Spoleto, si è trasformata in un flop: dei 24 medici che si erano fatti avanti, quasi tutti specializzandi, soltanto una ha effettivamente accettato l’incarico e preso servizio. Una carenza, questa, da cui sono già scaturite due inchieste della magistratura, a seguito di altrettanti ricoveri per emergenze cardiologiche all’esito dei quali si è verificato il decesso dei pazienti. Alla mancanza di una guardia cardiologica per le ore notturne si somma il mancato ripristino del reparto di Cardiologia, chiuso insieme ad altre strutture complesse dell’ospedale di Spoleto nell’ottobre 2020 quando il San Matteo fu stato trasformato interamente in Covid hospital.
Sempre a Spoleto appare ormai arrivata all’epilogo la battaglia per il ripristino dell’area materno infantile, anche questa completamente smantellata dalla Regione sempre nell’ottobre 2020 e mai ripristinata malgrado le promesse. Ma c’è anche di più. Se il Punto nascita non era infatti previsto nel piano di ripartizione dei servizi definito dalla Regione per la creazione del Terzo polo Foligno-Spoleto, diverso è il discorso per il reparto di Pediatria. Qui il piano prevedeva nero su bianco l’Osservazione breve intensiva (Obi) per i piccoli pazienti, che implica la presenza h24 di almeno un pediatra. L’impegno, che finora è stato disatteso, sembra non rientrare più nei programmi ospedalieri della Regione, come emerge dal bando di concorso indetto dalla Usl 2 per il primariato unico di Pediatria vinto dal dottor Maurizio Radicioni.
Sul ricorso massiccio all’ospedale di Foligno anche da parte dei residenti del comprensorio di Spoleto, il comitato per la salute pubblica, guidato dall’ex sindaco Umberto De Augustinis, ha recentemente diffuso alcuni dati preoccupanti che indicano un aumento del 40 per cento delle infezioni del tratto urinario, del 22 per cento delle ferite chirurgiche, 16 per cento alle vie respiratorie e 5 per cento dovute a batteri. Una crescita collegata al boom di presenze in questo presidio ospedaliero.