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di Ida Meneghello

Bastano cinque giorni a cambiare una vita? Bastano e avanzano, è sufficiente un istante a cambiarla, trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Oppure esattamente il contrario.
Per Goliarda Sapienza i cinque giorni passati in una cella del carcere di Rebibbia sono stati il posto giusto nel momento giusto della sua vita.Roma, estate 1980, lei aveva 56 anni e un libro che nessuno voleva pubblicare, era così depressa e sola e senza soldi da rubare una manciata di gioielli a un’amica e rivenderli presentandosi come Modesta Maselli, il nome della protagonista de “L’arte della gioia” e il cognome del suo ex compagno regista Citto. Un gesto pazzo fatto “per rabbia e provocazione”, disse. Quei cinque giorni li ha raccontati in due libri: “L’università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio”.

Goliardia Sapienza è l’anima irrequieta che vive da 40 anni dentro il corpo di Valeria Golino, da quando la incontrò che aveva solo 18 anni sul set di “Storia d’amore” di Francesco Maselli. Ci convive con la sua, altrettanto irrequieta, di attrice e di regista, la più brava delle registe italiane. Convivere con l’anima di una donna geniale fa fare cose che tutti credono impossibili. Come fare un film che diventa una serie tv bellissima (“L’arte della gioia”), così necessario da costringere un regista come Mario Martone a rinviare il progetto di un altro film sulla stessa donna che stava ruminando da anni proprio con Golino. Ha dovuto aspettare, perché solo Valeria poteva incarnare la scrittrice e chiudere così il cerchio che l’ha vista prima regista della trasposizione cinematografica del suo capolavoro, poi darle letteralmente il suo corpo nel film di Martone.

Ma ci voleva anche sua moglie Ippolita di Majo per scrivere la sceneggiatura con lui – coppia ormai collaudata dai tempi de “Il giovane favoloso” – perché solo lei sapeva come uscire dalla gabbia del biopic che gli uomini hanno in mente e fare il salto dal trampolino che è ogni pellicola per buttarsi a capofitto in una storia tanto forte da meritarsi Cannes, l’unico film italiano quest’anno in gara sul palcoscenico più ambito del cinema mondiale.

“Fuori” racconta i cinque giorni di Goliarda a Rebibbia nel caldo ottobre del 1980, la scena con cui si apre il film è l’incipit de “L’università di Rebibbia”:

“A sirene spiegate (o io sono diventata una criminale molto importante, o loro hanno solo fretta di tornare nelle rispettive case), percorriamo la città che mi appare più sontuosa e immensa”.

Goliarda entra nel carcere: “Su, su, si spogli! Tutto si deve levare, tutto!” “I miei vestiti nelle loro mani vengono frugati con solennità impressionante. Poi mi fanno fare una flessione a ginocchi divaricati, e capisco: è per la droga, potrei averne nascosta nella vagina.”

Sembra una storia come tante. Invece non lo è, “Fuori” racconta il meglio dell’umano possibile – l’amore, l’amicizia, la complicità -colto nel momento peggiore di una vita. Perché ci sono le donne con tutta la vita di cui sono capaci, e il desiderio e la sfrontatezza e il pudore del corpo femminile quando viene spogliato di tutto e tutto gli manca, a cominciare dall’aria. L’incontro di Goliarda con le detenute di Rebibbia diventerà paradossalmente la sua liberazione, la scoperta che non si aspettava più dalla vita.

“A Rebibbia c’è una libertà pazzesca, impensata. Quelle donne a Rebibbia stanno dentro anche quando stanno fuori. Così quando stiamo insieme mi sento dentro anch’io, libera.” dice nel film Goliarda/Valeria.

Martone l’ha raccontato così: è un “road movie in cui nulla doveva veramente accadere, ma tutto doveva essere”.

La chiave per la libertà che Goliarda scopre in carcere la possiedono in particolare due detenute che condividono con lei quei giorni e che lei continuerà a frequentare anche dopo la scarcerazione: Roberta, detenuta politica ed eroinomane interpretata da una folgorante Matilda De Angelis, e Barbara (la straordinaria Elodie) che vive nei casermoni di via di Acqua Bullicante, l’altra faccia della Roma che Goliarda conosce. Con loro la scrittrice scopre che un’altra vita è possibile, è possibile “una storia di amicizia libera, sorellanza, maternità e desiderio, perdersi e volersi ritrovare”, sottolinea Ippolita di Majo.

“Fuori” è per chi l’ha fatto e per chi lo guarda un film liberatorio: liberatorie sono le corse in auto con i capelli al vento, le risate complici che esplodono fra le protagoniste, gli sguardi che accolgono e comprendono anche ciò che le parole non sanno dire.

“Perché scrivi?” chiede Roberta a Goliarda. “Per stranarmi. Tu ti fai con l’eroina, io scrivo.” le risponde.

Valeria Golino ha spiegato ciò che ha vissuto interpretando la scrittrice, dopo aver diretto la serie tratta dal suo capolavoro: “essere Goliarda non significava più studiare la sua parte intellettuale, ma riguardava il suo corpo, i suoi modi di fare e la sua maniera di guardare le cose, i suoi rapporti.”

Un film è fatto dal montaggio e qui il montaggio è intenzionalmente ondivago, è dentro e fuori dal carcere, è dentro e fuori dal tempo, il prima e il dopo, perché è sempre la stessa vita.

E fondamentali sono i luoghi del set che Martone ha scelto e sono esattamente quelli reali della storia: il carcere di Rebibbia in cui compaiono le vere detenute ringraziate nei titoli di coda, i Parioli dei salotti che non sopportano più la scrittrice che nessun editore vuole pubblicare, il caffè di piazza Euclide dove Goliarda siede ai tavolini, l’attico in via Denza in cui lei ha vissuto col marito attore e scrittore Angelo Pellegrino, il mitico Canova di piazza del Popolo dove anche una ex detenuta piange scoprendo la grande bellezza di Roma, e le macerie delle periferie che sembrano Teheran, le inquadrature anni 80 di una stazione Termini che non esiste più.

Ancora non sappiamo se “Fuori” si aggiudicherà qualche premio a Cannes, esce nelle sale che il festival è in corso. Ma invito tutti a vederlo e a fermarsi fino alla fine dei titoli di coda, perché c’è il cammeo che spiega il titolo della pellicola: nel 1984 Enzo Biagi intervistò Goliarda Sapienza e lei, per spiegargli perché quei cinque giorni le avevano cambiato la vita, gli rispose semplicemente: “Il carcere è come fuori”.