di Lucio Biagioni
Foto ©Fabrizio Troccoli
Slalomando tra saluti e chiamate di questo e quello in una specie di trance alla Marcello di Otto e Mezzo (di Federico Fellini), cui manca solo la colonna sonora di Nino Rota, alla fine trasognato (“Vittorio! Vieni qui Vittorio! Sta’ un po’ con noi!”) Vittorio si ferma, stoppato dal più intraprendente con la camera già in spalla e il microfono acceso (“Una battuta, Vittorio, dicci com’è questa mostra!”), che lo blocca in mezzo al drappello della stampa locale. Per il cronista, Sgarbi è una bazza in queste occasioni. Senza uscire dal trasognamento di essere casualmente lì e in nessun luogo, dunque in tutti i luoghi, risponde a tutti e a ciascuno, affabile e preciso, allegro, brillante al solito, ciarliero e divertito. In un piovoso giorno di febbraio di molti anni fa, s’inaugura a Perugia, nella rinnovata Galleria Nazionale dell’Umbria, la mostra del Pinturicchio. Fra i cronisti ci sono anch’io. Satollata di spunti e dritte la piccola calca che si dissolve, ci troviamo non so come un attimo soli – lui, prima che riprenda il largo, ed io. Quale fu la conversazione che condusse a quel che sto per dire? Considerazioni sulla sua visita alla mostra, e quindi la gran mole dei suoi impegni? Sulle difficoltà di conciliare lo studio con il moto perpetuo dell’essere visibili, esposti allo sguardo altrui? Non so perché, “C’è un passo di Nietzsche”, gli dissi a bruciapelo, “che descrive il dilemma.”
Mi guardò, con quella sua aria smagata. Ah sì, che passo?
Cercai, di fronte a tal maestro di dizione, di recitarglielo il meglio possibile:
“Nella solitudine, il solitario divora se stesso. Nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli.”
La frase lo trafisse. O comunque gli fece un effetto imprevisto, visibile. Lo turbò. Non la conosceva. Ah, da “Umano, troppo umano”? Volle che gliela ripetessi. L’ascoltò attentamente per la seconda volta, e la sorpresa non gli fu minore della prima.
Si può dar torto ad Angelo Crespi quando un decennio fa, in un pezzo affettuoso, disse che descrivere la vita di Vittorio Sgarbi è quasi impossibile, se non per enumerazione di aneddoti da parte dei suoi adepti: “aneddoti che saranno diversi per ognuno di quelli che lo hanno frequentato o accompagnato per qualche giorno nella sua folle corsa”; e sono migliaia gli adepti e gli aneddoti milioni. E quindi qual rilievo può avere il mio, di aneddoto, nemmeno relativo ad un giorno, ma limitato ad un paio di minuti d’incontro casuale?
Ci ho pensato, leggendo queste settimane della “depressione” di Sgarbi. Quel nostro fugacissimo incontro Sgarbi non se lo ricorderà nemmeno. Né ho io alcun titolo, o conoscenza diretta che, a differenza di altri, mi permetta di occuparmi di una vicenda personalissima ed intima, della quale – parafrasando il filosofo -, non potendosi parlare, bisogna tacere. Tutto questo per dire che quel che segue non avrà altra valenza che quella di un articolo di critica culturale, liberamente ispirato a fatti di cronaca riportati dalle fonti d’informazione. Se dunque ci occupiamo della “depressione” di Sgarbi (che pare avviata – e gli facciamo i nostri migliori auguri – verso una graduale e positiva risoluzione), è perché la sua vicenda esemplifica importanti aspetti di un problema generale. Che è quello del ruolo dell’intellettuale ai tempi della comunicazione di massa, della cultura all’epoca della pura visibilità. In Sgarbi la critica d’arte, la cultura e la comunicazione mediatica si sono fuse come mai prima. (Nell’articolo citato, Angelo Crespi ricordava che, appena operato al cuore, con le cannule al naso, la prima cosa che Sgarbi disse fu “Mandatemi una troupe”, e poi pubblicò un video su Facebook. Sgarbi va veloce. La tv, l’immagine, la presenza scenica è il suo mezzo. Non scrive da 40 anni, dice Crespi. Quando deve scrive, detta. Una volta si fece seguire con le telecamere per sei mesi di fila. La vita, la propria vita, come opera d’arte.)
Non fece qualcosa di simile Gabriele d’Annunzio? Non ne è prova l’illusione che ancòra dura, perpetuata dalle guide che al Vittoriale alle folle dei visitatori ripetono, al di là di ogni evidenza, la scintillante vulgata? Il d’Annunzio aviatore, eroe, combattente, comandante, politico in esilio, cinematografaro, pubblicitario, influencer, il magnifico arredatore, il tappezziere impareggiabile, l’architetto le cui case erano della stessa natura e valore delle sue opere letterarie? E che tace invece (la vulgata) del d’Annunzio indebitato (alla domanda di uno studente, “Ma come faceva a permettersi tutta questa roba?”, una guida del Vittoriale ha risposto che aveva la pensione degli ex-combattenti, oltre ai diritti d’autore), alla perenne ricerca di soldi per il compratore compulsivo, che tartassava editori e governo fascista per avere anticipî, fondi, finanziamenti per la Santa Fabbrica in cui viveva recluso, nel frattempo sempre più malato e infelicissimo? Convinto intimamente, dopo tante opere scritte per denaro, manoscritti e autografi prodotti e venduti a scopo di lucro, di non aver scritto niente che lo rappresentasse davvero, che le opere, le sue vere opere fossero ancòra tutte da scrivere, lontano dalle masse, dalla politica, dal tono aulico falso che compiaceva gli ignoranti con una convenzionalità truccata da trasgressione, dando loro l’illusione di partecipare alla cultura alta? E a dire che l’aveva divinato con chiarezza il suo destino, quando, nel suo primo ed in fondo unico romanzo, fece dire al suo alter ego Andrea Sperelli che la vera gloria è postuma, e quindi non godibile, perché che importa avere cento lettori nell’isola dei Sardi, dieci a Empoli e cinque a Orvieto, per libri che sono puri oggetti di consumo, quanto i confetti del confettiere Tizio o dei profumi profumiere Caio? Ma purtroppo c’era di mezzo il danaro, necessario per far della sua casa il teatro perfettissimo di cui egli era un abilissimo apparecchiatore, nel cui artificio metteva tutto di sé, spendendovi largamente ricchezza, del suo spirito e non solo. E quindi èccola, la vita inimitabile, i salotti eleganti, il giornalismo, gli antiquarii e le aste, legata a quel germe oscuro che a poco a poco gli invase la mente, quella bramosia, quella fame degli oggetti, dei libri rari e delle legature, il marrocchino rosso che come sangue in grumo erba una indicibile grassezza fastosa e untuosa i letti damascati ampi e profondi i cuscini scarlatti gli avorii i drappi nobili gli smalti i tappeti di Persia i grandi trittici della scuola toscana le medaglie i piatti giapponesi le monete i ninnoli i libri di preghiere gli arazzi fiamminghi e maioliche metaurensi le stoffe ricche i cimeli le gemme incise: questo trarre dal mondo delle cose gran parte dell’ebbrezza, la mania che aveva di comprare, ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, incantatore vittima del suo incantesimo. Così come lo fuorviava la sua ebbrezza oratoria, l’ammirazione delirante suscitata nel pubblico dalla sua voce precisa e scandita, attribuita a quel suo altro ego che è Stelio Èffrena de “Il Fuoco”, in cui descrive le meraviglie della improvvisazione oratoria “regolata con acutissima vigilanza dall’orecchio difficile”, del suggello del suo stile che resta impresso sugli intelletti degli ascoltatori. Ma parlare non è scrivere, la parola scritta non è la parola orale rivolta in modo diretto ad una moltitudine; comunicare con la folla (tutta questa gente estranea, tolta per una sera alle sue occupazioni mediocri o alle sue predilette ricreazioni: “per le uditrici d’arte il nodo della mia cravatta sarà assai più apprezzabile dell’arte con cui coordinerò le mie frasi”), comunicare per le virtù sensuali della voce e del gesto è “un gioco di natura istrionica”. Egli (d’Annunzio) sa bene che solo la parola scritta crea “una pura forma di bellezza che il libro intonso contiene e chiude come un tabernacolo”. E la parola scritta si scrive, non si può dettare. E se non si scrive (è sempre d’Annunzio che parla, stavolta ancora attraverso Andrea Sperelli), non si scrive veramente, l’intelligenza decàde, la mano perde prontezza, l’artista pian piano perde le sue facoltà. È un processo inconscio. “Con la forza creativa lo abbandona anche il giudizio critico, il criterio (…) Non sa più se la sua opera è cattiva, o mediocre ch’è peggio; egli s’illude, e crede che il suo quadro, la sua statua, il suo poema, siano conformi all’Arte, e ne son fuori. Qui sta il terribile. L’artista ch’è colpito non lo sa, non ha coscienza di essere imbecille, come il pazzo non sa di essere pazzo.”
Fra le due alternative, Nietzsche scelse la prima. Non fu una scelta. Ci finì semplicemente dentro, nella trappola dell’emarginazione, della rottura con la mondanità, con Wagner che la rappresentava nei suoi capisaldi, il vellicare la massa, l’imbellettare l’arte di falsità, il confermare l’esistente. La trappola dell’isolamento, dove il solitario divora se stesso. E infatti si divorò. C’è immagine più icastica del Nietzsche nell’ultimo decennio in cui durò la vita? seduto impietrito, i baffoni cespugliosi fuori controllo, insaccato in un camicione bianco – a metà fra la tolstovka, la camicia di Tolstoj a Jàsnaja Poljàna – e la camicia di forza, la mano compassionevole della sorella Elisabetta sulla sua, che il fratello non riesce a sentire, gli occhi, spalancati e fissi – sul nulla che è il tutto? sull’eterno ritorno? sull’oltreuomo che non è il superuomo, la cui direzione è non verso l’alto del finto e pomposo divino, ma in basso, verso la natura, la terra, gli animali, il cavallo fustigato dal vetturino? la volontà di potenza che non è la sopraffazione e la guerra, come fecero credere i guerrafondai, ma l’arte che è la forma stessa della filosofia? e la filosofia che è strumento per vivere e agire per il bene dei popoli e dell’umanità, nell’autenticità degli spiriti grandi che vivono in un perenne rapporto con ciò che è grande e buono? Annotò prima del collasso che il pericolo d’imprigionarsi in se stessi è sconfinato, in un mondo omogeneo in cui la barbarie, cui danno manforte i “dotti senza dottrina”, i “gli educatori senza educazione”, emargina le nature più forti, pensatori filosofi uomini di azione che si muovono e vivono veramente, nell’autentico, non con una maschera addosso, come gli uomini sogliono vivere. E ricordò, nel magma delle sue considerazioni inattuali, il poeta Shelley che ammoniva del grande e comunissimo pericolo che corrono gli uomini straordinari, cioè non ordinari, non conformi alla massa e alle regole, uomini fuori del comune che vivono in una società legata a e da ciò che è comune e conforme: questi caratteri, annotò prima del collasso, che hanno in loro una sorta di tratto estraneo (fremdartige Charaktere), e vengono per prima cosa piegati, quindi diventano malinconici, poi malati, e alla fine muoiono. Shelley non sarebbe sopravvissuto in Inghilterra, così come in Germania si consunsero Hölderlin e Kleist. Individui di questo tipo, sottolinea Nietzsche, sono solitarî e liberi in spirito in una società che vede alla base di ogni solitudine sempre un elemento di colpa. In una società in cui l’apparenza è una necessità, tali nature vulcaniche, quando escono dalla loro caverna con atteggiamenti spaventosi e le loro parole e azioni sono come esplosioni, sono considerate pericolose. Essi lottano per superare il proprio tempo: una lotta che è memoria e desiderio della Natura, la Natura forte, la Natura Madre, la nostalgia di una umanità più sana e più semplice. Che al contrario viene bollata come una stolta e distruttiva lotta contro se stessi. L’avversione, l’intolleranza della società nei confronti di chi è veramente originale, notava Nietzsche, era così cresciuta ai suoi tempi che “da noi Socrate”, scrisse, “non avrebbe potuto vivere a lungo, e comunque non sarebbe arrivato, com’era arrivato, all’età di settant’anni.” Lo avrebbero ucciso prima, come capitò a Enrico Mattei. La Cultura, per Nietzsche, è ciò che completa la Natura, quindi il contrario dell’accumulo e sfoggio di conoscenze (i Philologen, i suoi colleghi di Basilea e similari). È educazione, Bildung, Formazione per l’azione in vista e in progetto di un Nuovo Accadere: costruire il futuro, dar forma al Divenire di individui sociali, restituiti alla loro autenticità, ricondotti ad una fraterna visione condivisa, non conflittuale ma cooperante, per il comune fine di una Umanità che prosegue armonicamente l’opera della Natura. (Non era la visione di Papa Francesco? E speriamo che qualcuno, dopo il lutto, la riprenderà.) La cultura, dice Nietzsche, non è l’accumulo morto di conoscenze. La cultura non va monetizzata. Non deve servire a far denaro.
Il danaro, èccolo il punto. Il denaro, le folle acclamanti, la fama cercata, il gigantismo degli spettacoli, il cedimento al gusto volgare sono la ragione insanabile del conflitto che oppose, fino all’estrema cesura, Nietzsche e colui che fu il suo grandissimo amico e modello, Richard Wagner. Lo strasuccesso, l’ambizione esorbitante del suo idolo, la sua trasformazione da artista in impresario a Bayreuth, l’accusa di svendere il teatro alle masse (“Smorfie! Monete false! Menzogna del Grande Stile! Stile Drammatico che non è che un genere dello Stile Cattivo, addirittura del Non-Stile nella musica! E i nostri Musici vi vedono un progresso!”) tramutò l’amicizia in tradimento, l’ammirazione in odio. (Chi era, per Nietzsche, il vero, naturale e profondo wagneriano del suo tempo, senza e nonostante Wagner? Quel bizzarro, trequarti folle Baudelaire, il poeta dei Fleurs du Mal.) Scrisse contro l’amico rinnegato un pamphlet velenoso, Nietzsche contra Wagner, cui lavorò incessantemente, e concluse completandone la prefazione nella notte di Natale. Era il 1888. Fu l’ultima cosa che scrisse. Quindi sulla sua mente calò il sipario.
Alcuni (ce ne sono molti altri dello stesso tenore) dei bigliettini dell’ultimo d’Annunzio all’architetto factotum Maroni: Grande tristezza. Disgusto di questa vita cotidiana. Tutto passa, tutto si guasta, tutto finisce. Come negli anni lontani la mia casa ridivenga un luogo di Clausura e di Silenzio. Sono in veglia furente da due notti. La mia teoria dell’Avversione alla sofferenza inutile. Questo mio soffrire cupo e vano è il cominciamento della fine. È bene che io guarisca o ch’io mi spenga? L’Anima è il più implacabile de’ mali. Stasera tocco il fondo della tenebra, di tutte le tenebre. Soffro d’uno di soliti accessi di malinconia, e questo d’oggi è il più grave di tutti. Per essere libero, mi son perfino condannato alla solitudine. Caro fratello, io ho il bisogno quasi tragico di escire da questo vecchio Vittoriale e di abitare in una casa nuova. Non si tratta soltanto di rinnovazione, ma di salvazione. Pensaci e aiutami.
Nella solitudine il solitario divora se stesso. Nella moltitudine lo divorano i molti.
Mi colpì il turbamento di Sgarbi. Fu per me un segno di grandezza.
La “piazza blu” segna una svolta. L’Umbria ne raccolga il messaggio