di Gabriella Mecucci
Quello di Tommaso Bori è stato un vero capolavoro. A quattro mesi dalle elezioni, quando sarebbe necessario costruire consenso e volontà unitarie, ha causato nel suo partito un vero terremoto politico. Il suo comportamento solleva almeno quattro interrogativi.
1) Perché un dirigente regionale impedisce l’ampliamento della coalizione di centrosinistra facendo fallire il tentativo di allearsi con Progetto Perugia, la lista moderata che aveva portato Andrea Romizi al successo e che aveva deciso di staccarsi dal centrodestra?
2) Perché sceglie il candidato sindaco (Vittoria Ferdinandi) con un colpo di mano, provocando le dimissioni del segretario comunale del partito?
3) Perché disarticola la coalizione riuscendo ad allontanare i socialisti e Azione che, frastornati, esprimono oggi tutto il loro malessere?
4) Perché provoca una spaccatura profonda del suo partito con quattro consiglieri comunali su sei e metà del comitato comunale di Perugia che esprimono pubblicamente, con tanto di lettera firmata, la propria contrarietà al suo operato?
5) Perché non porta nessuna delle sue decisioni alla discussione e al voto degli organismi dirigenti?
6) E perché riesce persino a beccarsi, in aggiunta, l’accusa di non aver rispettato lo statuto regionale dei democratici? I firmatari del documento critico ritengono che non poteva promuovere Sara Bistocchi commissaria del partito, dopo le dimissioni di Sauro Cristofani, in quanto l’Unione comunale era ancora in vita ed era dunque titolare del diritto di eleggere il suo nuovo segretario. La scelta di Bori potrebbe finire persino in tribunale: se davvero ci fosse stata una violazione statutaria qualsiasi militante potrebbe ricorrervi. Il segretario regionale nega di aver commesso un simile abuso e si dichiara certo di aver operato in modo corretto.
Rispondere a queste sei domande è molto difficile. E se ne aggiunge un’altra: l’artefice di queste scelte e i suoi tigellini come possono pensare di portare in porto un risultato elettorale dignitoso? Giuliano Giubilei nel 2019 prese poco più del 26 per cento, ma fece la campagna elettorale con sulle spalle la croce di sanitopoli, scoppiata un mese prima. Oggi, la situazione appariva decisamente migliore e più d’uno sperava di raggiungere un buon risultato.
Perché si è arrivati a questo sconquasso? La partenza era sembrata positiva. Il Pd di Sauro Cristofani aveva iniziato – su mandato dell’intero centrosinistra – una trattativa con Progetto Perugia, allo scopo di individuare un candidato sindaco comune. Si era persino arrivati a fare dei nomi: alcuni riportati dagli organi di informazione, altri rimasti più coperti. Sembrava davvero che il centrosinistra potesse costruire il mitico “campo largo”, anzi “extralarge”. Poi sono iniziati i primi scricchiolii, provocati da chi non voleva nell’alleanza Progetto Perugia perché aveva appoggiato in passato Andrea Romizi. E subito dopo apparvero tutti i sintomi della “coazione a perdere”, morbo che affligge da sempre alcune parti della sinistra. A questo punto Tommaso Bori, con un vero e proprio colpo di mano, ha annunciato la coalizione con la quale il Pd sarebbe andato alle elezioni e ha dato un volto e un nome al candidato sindaco (Vittoria Ferdinandi). Per 48 ore sia Roma sia qualche vecchio dirigente locale hanno cercato di fermarlo. Nulla da fare. Sono iniziate dunque le prime scosse: le dimissioni di Cristofani, la nomina del commissario e, alla fine, il documento firmato dai quattro consiglieri e dai 33 membri del comitato comunale. Più di metà partito perugino si è ribellato. Mentre il Pd andava in pezzi, Scoccia and company proseguivano nella loro campagna elettorale rafforzati dal ritorno di Progetto Perugia. E Massimo Monni, candidato centrista, assaporava la possibilità di veder accresciuto il proprio pacchetto di voti.
Il masochismo del Pd avrà fine? Bori continuerà a dirigere a colpi di clava? La sua strategia delle alleanze continuerà a privilegiare Sinistra italiana e Cinque Stelle? È ipotizzabile una qualche resipiscenza? Sembra impossibile.