di Sud
Prima o poi anche Giovan Battista Marino avrà il suo Roberto Longhi. Come è abbastanza noto, Michelangelo Merisi era un pittore quasi dimenticato; fino al 1951, quando il grande storico dell’arte inaugurò la mostra su Caravaggio e i caravaggeschi. Da allora è stato un susseguirsi di studi e scoperte, e in pochi anni Caravaggio è diventato un pittore di culto, con aste milionarie e code davanti a chiese e musei.
A Marino, di due anni più vecchio, non mancherebbe nulla per diventare una “poetystar” (per quanto sia possibile a un poeta che non sia Omero, Dante o Shakespeare, diventare una “star”). Certamente non gli mancò una vita avventurosa, addirittura più di quella caravaggesca, tra Napoli e Parigi, Torino e Roma, favori di regine e odi di papi, inquisizione, Indice dei libri proibiti, prigione e attentati.
Quasi impossibile classificare la sua opera sterminata, se non con lo stereotipo desanctisiano del «gran maestro della parola», ma con «nessuna profondità e serietà di concetto e di sentimento». Solo recentemente un grande filologo, Giovanni Pozzi, un cappuccino allievo di Contini e successore nella sua cattedra di Friburgo, ha tentato un’interessante lettura, accostando l’«ingegnosità febbrile» di Marino, i suoi «istinti profondi», alla poesia contemporanea dell’inconscio e della natura.
Come in uno degli idilli della Sampogna, in cui il volto umano, come in un quadro di Arcimboldo, è composto di frutti. Per alcuni dei quali occorrerà un po’ di spiegazione. Il popone (la testa) è ancora oggi in Toscana il nome del melone. «Poma casolane» (le guance), sono le mele rosse contese da Casole d’Elsa (Siena), Casola Valsenio (Ravenna) e Casoli (Chieti). La «punica buccia» coi suoi «purpurei grani» (la bocca) è la melagrana, chiamata “mela punica” dai romani, quando la trapiantarono da Cartagine.