di Ida Meneghello
Solo alla fine mi sono resa conto che avevo freddo nonostante la sala fosse surriscaldata, solo alla fine mi sono accorta che ero rimasta aggrappata alla poltrona per 106 minuti. “La zona d’interesse” del regista inglese Jonathan Glazer, Gran Premio della Giuria a Cannes e ora in corsa per cinque Oscar, è un film agghiacciante nel senso letterale del termine, lo si guarda impietriti e senza parole, perché questa pellicola, come forse nessun’altra nella lunga filmografia sulla Shoah, sa raccontare l’orrore senza mai mostrarlo. Ed è proprio in questo punto di vista che non ha precedenti, nella regia tutta per sottrazione di Glazar, che sta l’orrore: è nei rumori e nelle urla fuori scena, nell’abbaiare isterico dei cani, negli spari degli aguzzini, nel ritmo inconfondibile dei treni che arrivano giorno e notte, nella colonna sonora che non è una musica, sono i suoni stridenti prodotti da Micachu, la musicista Mica Levi. Quello che verrà e che sarà insostenibile lo si intuisce nella prima interminabile scena, schermo buio, silenzio, e mentre ti chiedi se la pellicola inizi davvero così, irrompe un suono straziante e capisci che è davvero questo l’inizio di tutto.
Lo schermo si illumina, esterno giorno, le rive di un fiume in una domenica di sole, una tranquilla famiglia tedesca con cinque figli biondissimi e un cane fa il bagno, gioca, mangia, si gode la scampagnata. Solo che la tranquilla famiglia tedesca è quella di Rudolf Höss, il suo mestiere è dirigere il campo di sterminio di Auschwitz. Accanto a lui c’è la moglie Hedwig (l’attrice Sandra Hüller, la stessa protagonista del film “Anatomia di una caduta”) che governa con passione la casa e il giardino dove vivono e dove hanno realizzato il loro sogno adolescenziale, un paradiso con piscina pieno di fiori e di api che ronzano, dove crescono sani e felici i loro figli di pura razza ariana. Ma oltre il prato dei loro giochi, oltre la piscina dei loro tuffi, c’è un muro alto e torrette di vigilanza ed è da là che provengono in lontananza urla e spari e confuso abbaiare di cani e sferragliare di treni, mentre a dominare l’orizzonte, il fottuto orizzonte di Auschwitz, ci sono le ciminiere da cui esce quel fumo, il fumo dei forni crematori. Il contrasto tra questi due universi separati solo da un muro non potrebbe essere più devastante per lo spettatore. Così, attoniti, guardiamo la quotidiana “banalità del male” di Hannah Arendt, ispirata in questo film dall’omonimo romanzo di Martin Amis. Höss è un uomo meticoloso, prima di andare a dormire spegne una dopo l’altra le luci della casa come faremmo anche noi. E come noi si sveglia, fa colazione, si veste indossando il suo abito da lavoro, la divisa e gli stivali lucidissimi del comandante delle SS che dirige un campo di sterminio, normalmente va in ufficio e torna per cena, e presto scopriremo che è una eccellenza nel mestiere che, per dirla in breve, consiste nell’ottimizzare la tempistica di smaltimento dei “rifiuti umani” che gli arrivano da ogni parte d’Europa. Credo che la scena più agghiacciante di questo film agghiacciante sia la riunione con gli ingegneri che gli illustrano i vantaggi del progetto dei nuovi forni crematori che si accendono e si raffreddano in senso orario, da 1000 a 40 gradi in un tempo record il che, spiegano, è certamente la soluzione più efficace al problema. Nel frattempo la moglie invita le amiche per il tè, chiacchierano e pescano gli abiti più belli tra quelli che arrivano dal campo, lei si chiude in stanza e si pavoneggia in una pelliccia di visone. Così i giorni passano nella routine quotidiana di una famiglia mediamente felice e quando Rudolf si meriterà, grazie alla propria efficienza, la promozione a supervisore dei campi che lo costringe a trasferirsi, la moglie non ne vorrà sapere di lasciare il paradiso che lei ha creato, lei ad Auschwitz sta benissimo. Quello che succede oltre il muro del giardino non li riguarda, sono solo morti viventi, non sono persone. L’empatia di Rudolf è tutta per la sua cavalla, la delicatezza di Hedwig è verso i fiori di lillà strappati dai soldati. È questa la normalità all'interno della cosiddetta “area di interesse” (Interessengebiet), la zona che circonda i campi di sterminio.
L’ultima scena è girata oggi, l’occhio di Glazar accompagna le donne che puliscono le camere a gas e i forni crematori di Auschwitz prima dell’apertura al pubblico. E allora sono arrivate le lacrime e qualcosa dentro che ripete non dimenticare, non dimenticare mai.