di Sud
Quelli di una certa età ricorderanno quel frego a forma di sette con cui si riempiva lo spazio rimasto vuoto alla fine di un atto pubblico, di un testamento o di un contratto, per scongiurare aggiunte successive. Un’usanza rimasta viva fino alla fine del secolo scorso, quando l’informatizzazione l’ha resa obsoleta. In un’epoca più antica, chi scriveva o trascriveva un documento, magari per vincere la noia (come pensava Carducci), invece del sette aggiungeva un disegnino, un proverbio, una poesia.
Il primo esempio noto è quello dei cosiddetti Memoriali bolognesi, (oggi conservati all’Archivio di Stato) in cui venivano trascritti tutti gli atti pubblici e privati del Comune; un’invenzione di lì a poco imitata in altre città del Nord. A introdurli nel 1265 furono i due podestà, “frati gaudenti” ricordati tra gli ipocriti nell’Inferno dantesco. Era un ordine tra religioso e cavalleresco con funzioni di polizia locale, che “godeva” (da qui il nomignolo) di cospicue rendite.
Le Rime dei Memoriali bolognesi furono edite nel 1960 da Gianfranco Contini nei Poeti del Duecento. I due volumi uscirono in una collana celebre: “La letteratura italiana. Storia e testi”. L’editore era Riccardo Ricciardi, che aveva però già da tempo ceduto la proprietà al banchiere mecenate Raffaele Mattioli e la direzione a Benedetto Croce. Nel piano editoriale disegnato dal filosofo, tra tante edizioni memorabili, eccelle ancora oggi quella di Contini.
Nello spazio bianco di uno dei Memoriali, una mano anonima scrisse una ballata, in cui due comari se la spassano tra capponi lardati e barili di vino. Due versi meritano attenzione: «Gièrnosen le comadre trambedue a la festa / de gnocchi e de lasagne se fen sette menestra». Per la prima volta, secondo Contini, due “monumenti” della cucina italiana erano citati in un testo scritto. E se lo dice lui c’è da credergli.