di Franco Raimondo Barbabella
L’educazione è un processo estremamente complesso, che ha a che fare con il materiale umano, con l’organizzazione sociale, con l’economia e con la politica. Lunedì Silvia Calvi su Linkiesta parlava della “disastrata condizione della scuola pubblica italiana” e rilevava che “Insegnare in Italia è diventata una missione più che un lavoro”. Esagerazione? No. Però bisogna andare oltre, ormai piuttosto oltre. Si potrebbe dire “vediamo come l’infinito opera nel finito”. La scuola italiana non è un sistema, è un agglomerato di situazioni, di esperienze, di punte di gran qualità, di paludi e di qualche pozzanghera. Accennerò pertanto solo ad alcuni aspetti, dando per scontate una miriade di questioni che magari riprenderemo in altra occasione. Vado per quadri.
Primo quadro. Domenica scorsa Ferruccio de Bortoli sul Corriere della sera metteva in evidenza alcuni dati che indicano uno stato di grave difficoltà del sistema educativo italiano e più in generale della società italiana per come è oggi. Lui lo chiama uno dei paradossi dell’Italia contemporanea, un paradosso drammatico del quale però l’Italia non vuole occuparsi: è certificato l’altro ieri da Eurostat che il 20% dei nostri ragazzi non studiano e non lavorano; nel contempo secondo un rapporto Excelsior-Unioncamere un milione e duecentomila posti restano scoperti per mancanza di candidati adeguatamente formati. Dunque qualcosa non va sia sul piano della ragion d’essere propria del servizio di istruzione e formazione perché il servizio non funziona, non svolge il suo compito, sia sul piano del pensare e del fare politica.
Secondo quadro. Quello ora detto è solo un corno del problema. L’altro si comprende se poniamo attenzione all’Agenda ONU 2030, in particolare all’Obiettivo 3: “Garantire una vita sana e promuovere il benessere di tutti a tutte le età” e all’Obiettivo 4: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Occorre una politica scolastica che congiunga strategicamente questi due obiettivi. Non c’è solo ritardo, c’è soprattutto inconsapevolezza della portata dei cambiamenti necessari.
Terzo quadro. Fa pensare soprattutto la lettura del documento UNESCO intitolato “Ripensare l’educazione: verso un bene comune globale?”. È un documento del 2019, c’era già l’emergenza climatica ma non c’era stata ancora la pandemia da Covid-19, non c’era stata ancora la guerra di Putin. Le condizioni di oggi dunque sono ancor più problematiche e scoraggianti. Ma bastano quelle del 2019 per convincerci dell’importanza delle sfide che abbiamo dinanzi. Un mondo diverso, dunque un’educazione diversa, strategicamente diversa, questa la necessità. Il documento si pone in continuità con il Rapporto Faure del 1972 e con quello della Commissione Delors del 1996, che già allora vedevano nell’educazione la strategia globale per un futuro possibile. E così dice: “Un’educazione di qualità per tutti e per tutta la vita può permettere a ciascuno di sviluppare le proprie potenzialità e alla società di promuovere nuovi processi di condivisione e di cittadinanza attiva”. Si tratta di affermare vecchi valori dimenticati e nuovi valori capaci di orientare i giovani in un mondo globalizzato, interrelato e in perenne movimento: rispetto della vita e della dignità umana, uguaglianza dei diritti, giustizia sociale, diversità culturale, solidarietà internazionale, responsabilità condivisa per un futuro sostenibile. Valori da declinare in azioni che producano risultati. Occorre passare dalle urgenze e dai rattoppi ad una logica di sistema.
Quarto quadro. Il fatto è che, come dicevo, il mondo è diverso. I tempi sono turbolenti. Lo sviluppo tecnologico crea insieme opportunità e sconvolgimenti, possibilità e apprensioni. Le società sono più che mai connesse tra loro e all’interno, ma nel contempo aumentano i conflitti e l’intolleranza. Crescono le aspirazioni ai diritti umani ma aumentano le disuguaglianze. Le persone si spostano in cerca di pace o di una vita migliore ma le paure e i pregiudizi razziali rendono difficile organizzare politiche di accoglienza. Il pianeta è sotto pressione. Di quale educazione abbiamo dunque bisogno nel XXI secolo? E prima ancora: chi sono i giovani a cui l’educazione è necessariamente rivolta e che ruolo hanno gli adulti e l’organizzazione sociale in questa sfida che ha bisogno non solo di saper convivere con gli algoritmi ma di algoritmi umanizzanti? I giovani hanno una identità? E gli insegnanti, e i dirigenti scolastici e gli educatori, chi sono, hanno anche loro un’identità? Che cosa si chiede loro? Sanno se si chiede qualcosa da rendicontare oltre le prestazioni quantitative puramente formali? Per ora lascio aperti questi interrogativi. Ci ritorno brevemente dopo solo su alcuni.
Quinto quadro. Oggi si tratta di immaginare l’educazione per quella che è stata definita la generazione Alpha (i giovani nati dopo il 2010), che segue la generazione Z, i giovani nati poco prima del millennio in un ambiente che li ha resi insicuri, la generazione di quelli che per la prima volta sono più poveri dei genitori. La politica forse soprattutto di questi dovrebbe occuparsi. Dunque dicevamo una educazione per la generazione Alpha, la prima nata integralmente nel XXI secolo, in un mondo totalmente digitale, in cui è inimmaginabile tirarsi fuori da “app”, iPhone, Instagram, Tik Tok. Entro il 2025 ci saranno nel mondo quasi 2 miliardi di soggetti Gen Alpha. Qualche milione anche in Italia. Joe Nellis, Professor of Global Economy alla Cranfield School of Management, Inghilterra, afferma che questa sarà una generazione più istruita e più dinamica, più intelligente delle generazioni passate, capace di abbracciare la complessità. È convinto che questa generazione, come nessun’altra, si interesserà e vorrà avere un peso sul benessere degli altri. Chi gestisce l’istruzione, dice il professore, dovrà adattarsi. Bene, una grande occasione per la politica di guardare avanti. Di idee simili è Isabella Fumagalli di BNP Paribas Cardif che sostiene: “I nati dal 2010 in poi riescono a rompere completamente gli schemi, regalandoci una vera e propria ‘ri- generazione’ umana che sovverte gli stereotipi di genere, supera le diversità culturali e difende il pianeta. Non sono solo semplici “nativi digitali” ma soprattutto “nativi social”, costantemente immersi tra vita reale e vita virtuale, esattamente la dimensione della nuova normalità.”. Non solo chi gestisce l’istruzione dovrà adattarsi mi pare.
Sesto quadro. Abbiamo bisogno di ritrovare fiducia, di coltivare la speranza in un futuro migliore da costruire ora, proprio in questo presente difficile, in questo tempo turbolento. Dice il documento conclusivo del recente congresso di Adi (Associazione Docenti e Dirigenti italiani): “Occorre dar vita a una nuova narrazione della scuola, basata sul fiorire dell’humanitas. Un’humanitas che può fiorire in un clima scolastico positivo, che persegua congiuntamente risultati elevati e il benessere di tutti. Un’humanitas che può fiorire dando voce e agency agli studenti, alle nuove generazioni che dovranno uscire dalla scuola preparati ad apprendere e preparati per la vita. Un’humanitas che può fiorire se si stabiliscono priorità e si snelliscono curricoli troppo estesi, puntando a un approfondimento che – negli obiettivi e negli approcci – integri lo sviluppo di traguardi accademico-disciplinari con lo sviluppo di competenze globali e socio-emozionali”. Non è una petizione di principio, è un nuovo pensiero, è una svolta.
Settimo quadro. È questa, con questo timbro, la partita della formazione umana e dell’apprendimento delle competenze intellettuali, emozionali e comportamentali. La partita della cittadinanza consapevole e della responsabilità civica. Per una parte certamente significativa, ma non saprei dire nemmeno se più significativa, la giocano le professioni educative. Perché si gioca nelle strutture deputate all’educazione a cominciare dalle scuole, ma ormai da un pezzo passa attraverso altre agenzie formative, sociali, culturali, comunicative. Con un’influenza crescente di quell’atmosfera impalpabile del clima sociale e dell’emozione diffusa che, spesso artatamente o spontaneamente, generano avvenimenti e condizioni impreviste. Si pensi alla interruzione e frequente disintegrazione delle relazioni interpersonali durante e dopo il lockdown e alle sue conseguenze sia sull’apprendimento che sulla dispersione scolastica.
Ottavo quadro. Dicevo, la partita la giocano in modo significativo le professioni educative. Ma queste sono pronte? Difficile dire. La scuola italiana non è un sistema, tanto meno un sistema flessibile. Molti si pongono il problema, si aggiornano, progettano e realizzano innovazioni. Ma manca la politica. Da anni è in atto una trasformazione della professione docente e della dirigenza, pesante e spesso senza punti di riferimento. Alle tradizionali competenze di tipo culturale e didattico (che restano comunque al centro della professionalità) si sono aggiunte competenze che da sempre hanno fatto parte implicitamente del patrimonio professionale degli insegnanti e che la contingenza storica ha reso ora più evidenti perché necessarie: competenze educative, competenze organizzative, competenze progettuali, competenze valutative, competenze relazionali, competenze comunicative, sul piano verbale, non verbale, iconico e multimediale. Qui occorre davvero un salto sistemico. Occorre una politica non solo scolastica, anzi tutt’altro che solo scolastica. E insieme occorre che alle scuole venga data autonomia reale e responsabilità di organizzazione e di risultati, con una forte relazione e un coordinamento progettato degli obiettivi nei territori.
Nono quadro, l’ultimo. Torno all’inizio: l’educazione è un processo tra i più complessi e delicati. Richiede capacità di pensiero e sguardo lungo. Di più: non ci può essere educazione degna di questo nome senza un’antropologia. Siamo ad un passaggio cruciale, in cui, come si diceva una volta, il vecchio mondo sta scomparendo e il nuovo ancora non compare con chiarezza. Questa che viviamo è l’epoca dell’incertezza. Ciò che però è certo è che non basta più dire homo sapiens né homo faber.
Questo è il tempo del mondo digitale, delle trasformazioni veloci, del riassetto geopolitico, della vita in diretta, dei cigni neri (gli eventi imprevisti, quando non imprevedibili). Perciò c’è bisogno di una nuova antropologia che ci guidi attraverso il mare in tempesta. Il fondamento non può che essere la responsabilità della persona, che nasce dal suo radicamento nelle comunità. Ci può essere d’aiuto la riflessione di Edgar Morin sull’età della complessità, sull’idea di Terra-Patria e sul comune destino umano. Ma è solo uno spunto. Abbiamo un compito arduo, un nuovo pensiero che si cali nella realtà e riesca a trasformarla. Abbiamo bisogno di classi dirigenti competenti. Abbiamo bisogno di una scuola che vada in questa direzione. È ora di cambiare registro. Ha ragione Renzi, la scuola è priorità assoluta, ma qualcuno dovrà farsene interprete.
La guerra ispirò gli artisti, rari i pacifisti. Ora è un videogioco