“Petto di ferro. La storia romanzesca di Pietro Carlani nella Perugia del Ventennio” (pubblicazione di grande formato, pp. 192, euro 15, Intermedia edizioni) di Roberto Binazzi.
di Sandro Allegrini
Per conoscere lacerti di storia di Perugia e rendere merito a un suo figlio, colpevolmente dimenticato.
Da perseguire non solo l’obiettivo di carattere storiografico e identitario, ma, nelle intenzioni dell’autore, anche la legittima rivendicazione della dignità di una storia di famiglia, ricostruita con rigore e onestà.
Da una valigia colma di foto e documenti (e addirittura con un biglietto autografo di affidamento di memorie ai nipoti Gianfranco e Roberto), la ricostruzione della figura del nonno materno, detto “Petto di ferro” per la sua vigoria fisica. Energia non disgiunta da un rigore morale e da uno spirito di servizio encomiabile per coerenza e fedeltà a valori di solida umanità.
Nativo di Pierantonio, Carlani intraprese una carriera militare in Marina, sopravvivendo all’esplosione della corazzata Benedetto Brin. Fu combattente nella guerra italo-libica e nella prima Guerra Mondiale. La Patria servita con dedizione, poi la carriera nei ranghi dell’Amministrazione della Provincia di cui fu “Preside”, come allora si diceva, dal 1929 al 1940.
La convinta collaborazione col podestà di Perugia, Giovanni Buitoni, inviso a certa dirigenza del Regime, comportò che anche Carlani si inimicasse parte del cerchio magico romano-perugino. Ma non se ne curò, da uomo del fare qual era.
A Pietro Carlani sono legate realizzazioni memorabili come l’acquedotto della Scirca, per una città assettata ed esigente, il Dispensario antitubercolare, per combattere una patologia allora assai diffusa, l’Ospedale Grocco (ancora in uso e, per quei tempi, vera meraviglia di architettura sanitaria), lo spostamento del Monumento a Garibaldi (1930), il Mercato Coperto con Giuseppe Grossi e realizzazione a tempo di record, così come il completamento dell’Ospedale di Monteluce, oltre al rifacimento del sistema fognario urbano. Non sono che le creazioni più significative di un uomo instancabile e propositivo.
Nel 1940 è chiamato in Alto Adige, come Prefetto a Bolzano, a dirimere le controversie fra i tedescofoni orientati verso Hitler e quelli che volevano restare “italiani”.
Rifiuta l’arruolamento a Salò e sfugge, nel fatidico 8 settembre 1943, all’arresto da parte dei Tedeschi. Fascista sì, ma Italiano e ragionevole. Si trovò così nella scomodissima posizione di essere inviso sia ai fascisti duri e puri che a partigiani e repubblicani antifascisti.
Cessò quindi ogni attività pubblica, mettendosi ad amministrare le proprietà agricole sue e quelle della Real Casa Savoia Aosta (con la quale i suoi discendenti intrattengono tuttora rapporti di cordialità).
Il libro si apre con una nota affettuosa di Gianfranco Binazzi (fratello di Roberto) che ricorda la severità del padre Maurizio (noto primario di Dermatologia), contrapposta alle premurose tenerezze e alla generosità del nonno materno Pietro, che lo accompagnava alle elementari Ciabatti della Pesa, al negozio Cocciolino per le caramelle, ai Giardinetti a giocare. E poi, a lui cresciuto, il regalo del Maggiolino Volkswagen per rimorchiare ragazze. Fino al decesso del nonno, avvenuto nella primavera del 1970, a seguito di una caduta, alla sommità della pettata di Fontenovo, sulle scalette del Carmine, mentre tornava da una visita al Cimitero monumentale a dire una preghiera per il figlioletto Franco, morto all’età di tre anni. Petto di ferro sopravvisse all’incidente, e alla conseguente commozione cerebrale, per qualche mese, per congedarsi l’8 agosto, nella sua casa di via Bontempi, sotto gli occhi della moglie Lorenza.
Pietro Carlani aveva, peraltro, ricoperto con onore e dignità le cariche di Presidente della Fondazione per l’Istruzione Agraria, di Commissario del Consorzio antitubercolare, di Presidente dei Servizi manicomiali e psichiatrici di Perugia. Nessuno osò mai rimproverargli il suo ruolo di gerarca del Fascismo, tanto che Carlani continuò a vivere a Perugia, circondato dal rispetto e dalla gratitudine dei suoi concittadini, fascisti o antifascisti che fossero. Camminò a testa alta, ogni giorno da via Bontempi al Corso, senza mai nascondersi, sapendo di poter contare sull’avallo di una medaglia il cui merito nessuno gli avrebbe mai contestato: lo stigma dell’onestà.
Un libro, dunque, scritto con la mano sinistra, quella del cuore, dal nipote Roberto Binazzi, già professore di Clinica ortopedica e traumatologica al Rizzoli di Bologna, appassionato di archeologia e di storia perugina. Tanto che, dopo una vita operosa nel capoluogo felsineo, Roberto, ora in pensione, passa metà settimana fra le pietre della Vetusta. E dialoga con l’Arco dei Gigli e col libro della storia, scritto sui conci in travertino. Poco sotto casa sua.