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di S. Allegrini

Sugli scaffali il libro postumo del pittore perugino Franco Venanti dal titolo “Il mio più grande Maestro”, a cura di Sandro Allegrini, Morlacchi editore. Verrà presentato giovedì 8 maggio, alle ore 18:00, alla Galleria d’Arte Entropia di via Alessi

“Mi contraddico, certo che mi contraddico. Contengo moltitudini!”, scrive il poeta statunitense Walt Whitman. Questo libro, che Franco finì di dettare il giorno stesso della sua dipartita, ci conferma la sua marcata poliedricità documentando, nel contempo, anche alcune sue caratteristiche inequivocabili. Che non sono le contraddizioni del poeta statunitense, così lontane dalle doti di coerenza e fedeltà a se stesso del Nostro. In comune c’è però il fatto che anche l’amico Franco, come Whitman, era uomo che conteneva universi.

E veniamo a questo letterario canto del cigno. Il libro ci consegna due sezioni che caratterizzano l’uomo e l’artista.

La prima immagine è quella dello scrittore e dello storico della città. Uno storico che non attinge a fonti esterne, ma fa appello alla propria memoria di vita vissuta. Sulla scia del suo primo libro, prezioso e amatissimo, Quando una rondine faceva primavera, uscito per i tipi di Guerra nel 2001. 

Un libro magistralmente prefazionato dall’amico Francobaldo Chiocci che concludeva, prevedendo (come è poi più volte avvenuto) un seguito agli amarcord giovanili dell’amico pittore: “Lo aspettiamo rassegnati. Non certo alla sua ineluttabilità, quanto al suo trapasso di clima. Lui, e tutti noi, più vecchi, lui, e tutti noi, meno innocenti”. Ne abbiamo riparlato all’Auditorium Santa Cecilia di via Fratti, in occasione dell’evento con Pingitore e i suoi per la presentazione di un lavoro a quattro mani dei due “grandi vecchi”, incontratisi per caso e divenuti amici. Da amico/presentatore, invitai Francobaldo, antico sodale venantiano, a dire la sua. E, ad onta dell’età, si mostrò all’altezza del compito, confermando la lucidità e la preveggenza di quella sua nota di oltre un ventennio fa.

Tale fu il riscontro di quell’opera iniziale, che Franco Venanti ha proseguito la narrazione, non cronachistica ma esperienziale, coinvolta e coinvolgente, scandita per decenni: anni Cinquanta, Sessanta, Settanta… ed era intenzionato ad arrivare fino alla stagione presente e viva sulla quale avrebbe avuto ancora tanto da raccontare. Perché Franco era depositario di una straordinaria capacità di affabulazione, esposta con naturalezza e lucida precisione.

Si tratta di narrazioni che costituiscono raffinate e coinvolgenti diegesi, perfette sintesi di microstoria e macrostoria, fondamentalmente perugine. Un racconto che si dipana in una modalità informale e confidenziale, fresca e colloquiale, quasi parlata, come era solito verificarsi nelle interminabili conversazioni telefoniche con gli amici.

È strabiliante il modo in cui Venanti riesce a legare epoche ed eventi. Coniugando, inoltre, il personale e il collettivo. Direi persino l’universale, quando comunica sentimenti e valori coerenti con la natura e la vocazione dell’uomo di ieri, di oggi e, ragionevolmente, perfino di domani. 

More solito, in questo libro c’è il Venanti di sempre, affascinato dai sogni, dal mistero e dall’esoterico, con la mente intrisa di visioni profetiche, utopiche e distopiche, di eterno indagatore, di inesausto viandante nei sentieri dell’ignoto.

E domina, specie nella prima parte del libro, il suo appassionato interesse per la donna e per il sesso. Vissuto in modo coinvolgente e indagatore, da adolescente e da adulto. Un curioso delle donne, si direbbe, alla maniera di Alberto Bevilacqua che lo conobbe e apprezzò. Franco Venanti capace di riferire non solo le parvenze fascinose e seduttive dell’eterno femminino, come ha fatto nelle tele pittoriche per tutta una vita, ma di esplorarne anche le intime pulsioni, il sentimento, la personalità, le altezze e le bassezze, la generosità e l’egoismo, la seducente luminosità e le irresistibili oscurità. 

Il primo equivoco da dissipare è legato al titolo. Quando cominciò a lavorare intorno a questo progetto, Franco mi disse che il libro era legato alla memoria di suo padre Domenico (di cui il figlio Luca porta orgogliosamente il secondo nome), artigiano/artista della scarpa e poi commerciante di settore. Credevo che fosse, appunto, lui il più grande maestro. Lavorando invece alla revisione – come lui stesso ebbe a chiedermi più volte e come i familiari hanno deciso – mi accorgo invece che il maestro non è un essere umano, né un individuo particolare, ma un luogo: il negozio, appunto. Un luogo all’interno del quale Franco ha conosciuto persone e personaggi, ha maturato esperienze e conoscenze, instaurato relazioni e scambiato affetti, ricevuto insegnamenti  e subìto iniziazioni… perfino erotiche. Un negozio che è stato, appunto, magister vitae. Ma anche una trincea, un presidio cittadino, un posto privilegiato di osservazione e di riflessione. Un metro con cui misurare e misurarsi. Una scarpa – si direbbe, per restare in armonia col contesto – fatta sul piede del cliente.

Nel libro, dicevo, c’è tutto Franco, fin da adolescente, con le sue fisime e la sua  ipocondria. Non celata, ma candidamente confessata, persino ostentata. E così sono tante le storie di e sui medici, come professionisti e come persone: eroi e imbroglioni, protagonisti di ascese e cadute. Malattie come la peccaminosa sifilide, il più clemente scolo (che il venerologo chiamava gonorrea) e l’incolpevole tubercolosi. Storie di medici e medicine, di imbrogli per evitare la leva militare e di clamorosi sbugiardamenti. Robusti giovanotti, fintamente affetti da acciacchi e impedimenti, renitenti alla leva, ma molto attenti alle esibizioni nudiste della signora che ostentava i propri gioielli a favore dei ricoverati all’ospedale militare di Santa Giuliana. Svuotando i letti e le corsie. Storie e storielle, rigorosamente vere, che fanno sorridere e ridere perfino un po’. Un goliardico, ma rigorosamente documentato “come eravamo”. Offrendo, nel contempo, uno spaccato storico e antropologico di furbizie e disonestà, ma anche di sacrificio e dedizione.

E c’è tutto il periodo della guerra e il successivo, con la tessera, la fila per i generi alimentari e perfino per l’acqua alle fontanelle pubbliche.

Il libro ci fa scoprire perfino un Venanti fischiatore e ventriloquo, oltre che raccontatore di barzellette presso un’emittente televisiva nazionale.

Poi c’è  la seconda parte del libro in cui la narrazione di fatti e personaggi viene sostituita da riflessioni di natura esistenziale, filosofica, pseudo scientifica, sociale e politica, nobilmente ideologica. Una sezione in cui Franco Venanti torna sui temi che lo hanno sempre interessato e coinvolto: la storia dell’uomo e del pianeta dalle origini alla contemporaneità, con spigolature sul possibile futuro. L’universo e la realtà cosmica, l’esistenza di mondi paralleli, la curiosità, l’apertura al mistero, la sintesi di letture e riflessioni personali. Tutto improntato a un senso sempre vivo di curiosità, di vivacità intellettuale, di apertura alle infinite possibilità di immaginare, elucubrare, profetizzare. Insomma: il Franco che si lanciava con inesausto ardimento nell’immensità della nostra ignoranza per ricavarne briciole di vero. O di semplicemente desiderato. Come solo un artista e una mente profondissima possono instancabilmente auspicare.

Direi che, anche in questo suo ultimo libro, Franco ha realizzato un grande affresco di storia e vita cittadina. Insieme a riflessioni, da regalare a noi tutti, maturate in una vita lunga, generosa e proficua. Come la sua ampiezza di visione, il suo pensiero dal vasto orizzonte, il suo mestiere di pittore, la sua vocazione di efficace affabulatore gli consentivano di fare. E ci piace pensare che tutto questo appartenga alla sua storia di uomo, vissuto su questa Terra, alla ricerca del bello e del vero.