di Daniela Matronola
«Ricordo un altro titolo: Il giorno più bello e il giorno più brutto della mia vita. Scrissi: il giorno più bello non lo ricordo ma deve essere stato quello della mia nascita perché sono passata dal buio alla luce; anche il giorno più brutto deve essere stato quello della mia nascita perché prima di nascere si è privi di peso e invece dopo si diventa pesanti». A citare queste parole è lo scrittore Davide Orecchio, nella postfazione a Pranzi d’autore di Oretta Bongarzoni, sua madre, autrice del libro e, da ragazza, del tema, poi giornalista di Paese Sera in altri anni, al punto che quel giornale ha chiuso da tempo i battenti e anche il giornalismo è tutto un altro.
Pranzi d’autore è uscito la prima volta da Editori Riuniti nel 1995, scritto da Oretta Bongarzoni nei mesi torridi dell’estate 1994, e subito messo in catalogo nella Collana Operette e poi nella Varia. Ora minimum fax ridà vita al libro con una veste sontuosa, una struttura compatta e squadrata, una copertina rigida che lo allinea ai numerosi testi di chef e esperti di cucina e lo tiene saldamente in una ideale biblioteca enogastronomica, e, soprattutto, lo correda di illustrazioni ad opera di Agnese Pagliarini, responsabile dell’intero progetto grafico.
Più che un libro di cucina, Pranzi d’autore è un libro di Letteratura che scova e riunisce ricette e preparazioni annidate in opere di autori grandi, e noti o meno noti, qualche volta rari, spalancando pagine in cui non manca l’aspetto pratico del cucinamento, il cui valore però è dare forma a un tema che è, credo, il punto cardine della scrittura romanzesca, e della letteratura in sé: la classificazione e la disposizione degli strumenti e dei materiali, la loro sapiente combinazione, la loro accorta misura, la maestria, dopotutto, da parte di chi li cucina, nel calibrarli e mescolarli fino a fonderli in un cibo equilibrato, ben pesato e magistralmente apparecchiato.
Viene spontaneo, con figura dantesca, formulare, per i piatti cucinati dentro le opere qui riportate, la definizione di cibo dello schermo cioè di elemento che eleva di potenza e propala significati altri della pagina come dettaglio a tutti gli effetti letterario. È dunque, quel cibo, descrizione, anzi animazione, specifica e di sintesi, e moltiplicatrice, nello stesso tempo, del senso profondo delle pagine letterarie in cui rifulge come perla nascosta, come luce pulsante capace di illuminarle ulteriormente – un tesoro che questo libro sa portare con altrettanta maestria dal buio alla luce, e mettere in evidenza.
In questa funzione, il cibo che emerge dalle pagine scelte dall’autrice non solo centellina e distilla il valore letterario dell’opera da cui proviene e dell’autore/autrice che lo ha cotto a puntino, ma diventa protagonista di un saggio di lettura della compilatrice, poiché indica il rapporto che la Bongarzoni ha intrattenuto con quelle opere e quegli autori, con quelle pagine e quei cibi. Ed è anche, come poi apprendiamo dalla postfazione redatta da Davide Orecchio, suo figlio, indizio di un rapporto col cibo che non è stato lineare né sempre sano ma è stato spesso tortuoso e problematico. Dopotutto la relazione col cibo e il modo di alimentarci dicono molto di noi. Raccontano appunto per via indiretta come ci rapportiamo alla vita e alla realtà, al mondo. Il cibo racconta. Lo sapevano bene Fëdor Dostoevskij e Thomas Hardy, Rudyard Kipling e Raymond Carver, Katherine Mansfield e Simone de Beauvoir, Antonio Tabucchi e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, o autori rari come Kate Chopin e Michail Saltykov-Ščedrin. La lista è molto lunga ma questo non è l’indice del libro, perciò lascio a chi lo leggerà il gusto di scoprire le opere e gli scrittori, qui chiamati in causa anche in veste di cucinieri. Dico solo che questo non è un libro teorico. Non è un assemblaggio di schede di lettura e neppure un catalogo di schede tecniche per apprendisti maestri di cucina – ciononostante, per ogni preparazione troviamo la quantificazione degli ingredienti e precise indicazioni su come procedere all’approntamento dei piatti.
È invece un libro pratico. Chi volesse può, come Davide Orecchio stesso racconta nella postfazione d’aver fatto, mettersi in cucina, libro alla mano, e scegliere una o due ricette da realizzare seguendo le direttive cavate con sapienza dall’autrice dalle pagine predilette – per scoprire che l’equilibrio è tutto: nell’arte gastronomica come nella scrittura letteraria, nel soufflé come nel racconto, nell’ arrosto come nel romanzo. Ed è richiesto equilibrio, dopotutto, anche in chi legge e per imitazione prova a riprodurre il modello: che sia un buon piatto di triglie fritte (cucina facile, dopotutto) come una pagina magistrale, asciutta e spietata, pure scovata in Lo Straniero di Camus.
La verità è che rifare una ricetta come riscrivere una pagina richiede soprattutto mano libera.
Per quanto si ricavino dettagli precisi da cui ripartire, la maestria sta principalmente nel concedersi qualche libertà. Aggiungere criterio a criterio, sapienza a sapienza. La formula che custodisce questo “senso di Cicchetella”, ingrediente segreto e misterioso che le nonne-cuoche suggerivano quando si spazientivano con le nipoti, seccanti apprendiste, è, direi proverbialmente, la sigla q.b., quanto basta: una specie di regno della libertà di manovra che ti lega alla ricetta e da essa ti svincola, quel margine di inspiegabilità che spalanca le porte dell’esercizio libero ancorché guidato, e libera l’immaginazione – lo troverete, se avrete costanza a cercarlo, in uno dei passaggi più suggestivi di Pranzi d’autore, e non è nella prima pagina, redazionale, con cui il libro si apre, ma ben posizionato nel cuore del libro, in un punto che naturalmente qui non vi viene svelato. A voi come ad altrettanti setacciatori, oltre che di farine, anche di testi, il gusto di trovarlo.
Ricordo per inciso che Q.B. La cucina quanto basta è il titolo di un fortunato libro di Sapo Matteucci edito da Laterza nel primo decennio degli anni Duemila, in cui la cucina come necessità diventa una non piccola esperienza dell’anima peraltro via via di sempre più alta temperatura estetica e culturale.
Il nuovo editore, minimum fax, ha talmente preso sul serio l’elemento di sganciamento e imitazione di cui si diceva che ha posto quanto basta a sigla del libro nella pagina finale dei TITOLI DI CODA come motto che ci congeda da questa opera delle opere.
Oretta Bongarzoni l’ha composta nella fase più dura della propria esistenza, quando, madre singola di un figlio destinato a diventare storico e poi sbarcato nel romanzo-saggio, s’ammalò, e alla bella età di cinquantasei anni dovette lasciare questa Terra. Scrivere questo libro, che in molti abbiamo nella primissima edizione, fu un modo per lavorare a qualcosa di scritto proprio in quel 1994 in cui il suo giornale, Paese Sera, ebbe la prima, clamorosa chiusura, seguita da una coda penosa che lei non vide – dunque dedicarsi a Pranzi d’autore deve essere stata una consolante vacanza, un culto di quel sano vuoto che è dimenticarsi almeno temporaneamente dei propri guai e di sé tuffandosi in qualcosa di vivo.