di Fabio Maria Ciuffini
Una storia affascinante che vide per secoli a Perugia lo scontro tra conservatori e novatori. In pratica due opposte fazioni di cui ritrovo i tratti in alcune attuali divisioni tra i miei concittadini. A Perugia, dal 1254, l’innovazione fu quella di fare l’acquedotto e poi di conservarlo, puntigliosamente, per secoli e su diversi tracciati, nonostante malfunzionamenti, continue rotture e furti, ma anche il come farlo e cioè non a pelo libero come negli acquedotti romani ma a pressione. E di farlo per primi in Italia e in Europa dove Perugia fu celebrata e invidiata come la città in cui “l’acque andavan per l’insù”. E per quella novazione Perugia pagò il prezzo pesante di chi si inoltra per primo su una strada tanto promettente quanto sconosciuta. Infatti, una volta fatta la fontana e che fontana – subito celebrata anch’essa – non restò a coloro che ressero Perugia nei secoli – che cercare puntigliosamente di alimentarla – tanto che alcune anime belle tra i conservatori, mai duri a morire, in un anonimo libello1 dei primi ‘800, quando si fece l’ultimo tentativo di rimettere in funzione l’opera con concetti moderni, ebbero a chiamarla “la mania perugina dell’acquedotto”.
E veniamo agli antefatti, per capire le ragioni di quella divisione in fazioni pro o contro l’acquedotto. Fino a tutto quel XIII secolo Perugia non ne aveva infatti sentito il bisogno. Bastava scavare un pozzo per trovare acque freschissima in quantità; tanto che ogni abitazione aveva il suo pozzo in cantina e puoi vederli anche adesso. E certamente questo fu uno dei motivi per cui i nostri padri etruschi scelsero di costruire una città su una rupe che a prima vista poteva apparire aridissima. E tralascio qui per non farla troppo lunga la storia anzi la paleostoria di questa curiosità geologica e di come quella falda freatica si formò. L’antefatto è che poco prima degli anni mille il pianeta si trovò nel “Periodo caldo medievale”, quel surriscaldamento globale certamente non di natura antropica che è l’appiglio di chi nega la responsabilità della CO2 nel surriscaldamento di oggi. Fatto sta che a Perugia, con il Tevere ridotto a un rivolo e il Trasimeno a una palude, anche la falda freatica progressivamente si ridusse fin quasi a sparire. Ed invece le vicine città della valle umbra, come Trevi, Assisi, Bevagna o Spoleto, non beneficate da quella quantità d’acque che a Perugia avevi praticamente sotto i piedi, facevano ancora fronte alla siccità con i loro acquedotti alcuni addirittura di epoca romana. E così la superba Perugia, fra l’altro in piena crescita economica e demografica, si trovò a combattere con il bisogno primario della sete ed a doversi adattare all’idea di avere anch’essa un acquedotto che alimentasse una pubblica fontana cui tutti potessero attingere. Già, ma da dove prendere l’acqua? Si ricorse allora alle arti dei Frati Osservanti di Monteripido, custodi di sapienze antiche e tra di essi tal Fra Plenerio che osservò che a “Mons Paxzanum”, proprio dirimpetto al Convento, l’acqua c’era e bastava captarla. Si arrivò così “Al suono della campana e della voce degli araldi su mandato di Giacomo de Ponte proconsole a Perugia2” alla convocazione del Consiglio del popolo. “In dicto consilio” si riferì come Fra Plenerio, visto e studiato ancor meglio il luogo di Monte Pacciano confermasse come si potessero condurre l’acque a Perugia con un “perpetuum opus” e, data la parola allo stesso frate, questo affermò che la lunghezza dell’acquedotto fosse di quattromila passi e che fossero necessarie cinque archeggiature tra grandi e piccole. In quel consiglio non si spiegò però quanto quel nuovo acquedotto sarebbe stato diverso dagli altri e della funzione che avrebbero coperto le “fistule” di cui pure si presentò il preventivo di acquisto. Diciamolo oggi: se si fosse voluto fare un acquedotto a pelo libero in stile romano, gli archi di Via dell’acquedotto sarebbero alti come un palazzo di dieci piani e tra Monte Pacciano e Monteripido si sarebbe dovuto fare un acquedotto tre volte più alto di quello del Pont du Gard, che sta sulle monete da 5 Euro e che è ancora l’acquedotto più alto del mondo. Si scelse dunque la soluzione in pressione, a sifone rovescio secondo il principio dei vasi comunicanti. E non c’erano precedenti che potessero dare un’idea di quanto fosse quella che oggi viene chiamata perdita di carico nelle condotte, così come non ce n’erano riguardo alla massima pressione, “le forze vive dell’acqua3”, esercitata sulle condotte nel loro punto più basso. Tanto era ancora carente la scienza idraulica che quell’acquedotto piuttosto che un miracolo d’ingegneria andrebbe definito un miracolo tout court. A reggere quelle forze vennero costruite tubature ad hoc, le fistule appunto. Oggi a parte le “plumbee fistule”, questo è il sistema corrente di realizzare un acquedotto, ma, credete a me, nel 1254, ci volle grande intelligenza progettuale per immaginare e somma maestria per realizzare per la prima volta in assoluto un acquedotto in pressione lungo 4 Km a servire un’intera città.
Massima gloria a Fra Plenerio, Fra Bevignate a Boninsegna da Venezia e a tutti gli altri che a quell’acquedotto, anzi a quegli acquedotti dettero vita. E il secondo tracciato iniziato nel 1322 quando il primo era già andato in rovina, ancor più ardito del primo, fu dovuto all’ingegno e qualcuno dice all’incoscienza di un Fra Vincenzo che scelse la via più corta per arrivare in Città, ma anche quella che scendeva più in basso e che rendeva massima la pressione nelle fistule sottoponendole ad uno sforzo ai limiti delle rudimentali tubature dell’epoca. E che rese tribolato il funzionamento di quel tracciato che pure restò in vita fino al 1785 quando il Cerrini pensò a tubature di ferro ormai disponibili in luogo di quelle di piombo e tornò sul primitivo tracciato del 1254, da cui prese le mosse la grande avventura dell’Acquedotto Medievale che continua ancora oggi. Ma anche una querelle politica che divise la città per secoli e che spinse Fra Plenerio dopo pochi anni dall’inizio dei lavori ad abbandonarli. Che era successo? Erano finiti i soldi? Forse anche questo. Però accadeva anche che il surriscaldamento climatico aveva conosciuto il suo vertice proprio nel 1254 e in tempi rapidissimi si era tornati alla normalità, con i pozzi nuovamente pieni di ottima acqua e sempre più cisterne per raccogliere acqua piovana. E, a mio avviso, iniziò così lo scontro tra acqua pubblica ed acqua privata, tra ricerca del quieto vivere e gusto della sfida. E di questa lettura politica di quegli eventi c’è un ulteriore aspetto. Quello dello scontro tra cittadini e villici delle campagne attraversate dall’acquedotto che si videro sottratta quell’acqua e cercarono in ogni modo di recuperarla sia attingendola abusivamente dall’acquedotto, sia interrompendolo più volte asportando interi tratti delle sue condotte. Io me l’immagino quelli che in Consiglio e in città si alzarono a dire: “Ma questa costosissima opera chi ce la fa fare?“ “E poi siamo sicuri che funzionerà?” “Non sarebbe meglio impiegare quei soldi per dare acqua alle campagne e alle fratte?” E me l’immagino bene perché come Amministratore Pubblico quei dubbi e quegli interrogativi li ho dovuti gestire per altre opere innovative della cronaca recente e meno. E questa può essere la ragione per cui quei lavori appena cominciati furono interrotti e per un bel pezzo. E solo verso la fine del secolo ripresero e si fece la Fontana e la sua bellezza certamente aiutò i novatori a dire: “Ed ora che abbiamo questa fontana la lasceremo senz’acqua”? Così come i tardi successori di quei coraggiosi avrebbero dovuto dire “Ed ora che abbiamo questo meraviglioso acquedotto medievale, lo lasciamo cadere e sparire?” E non l’hanno fatto. Ma speriamo che la Perugia di questi giorni riesca salvare ciò che ne resta … Comincia una nuova avventura e credo che valga la pena di seguirne gli sviluppi e darvi conto, insieme al loro stato, delle tante parti di quell’acquedotto di come son fatte nonché della loro affascinante storia più in dettaglio.