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Trenta anni fa Gian Franco Ciaurro strappò per la prima volta il Comune di Terni alla sinistra. Le elezioni di quest’anno cadono proprio nel trentennale. Ecco il racconto di quel momento che ebbe una grande rilevanza nella storia della città e della politica umbra. Soprattutto per la qualità di un personaggio qual era Ciaurro.

di Walter Patalocco

L’antefatto furono le elezioni amministrative del 1990. A Terni, il Partito Comunista, riferimento politico largamente maggioritario dalla fine della seconda guerra mondiale, perse quasi il 10% dei consensi rispetto alle precedenti comunali (dal 43,7 al 34,3) e la guida dell’amministrazione cittadina. Dopo un’ininterrotta serie di sindaci comunisti, nel 1990 fu il Partito Socialista, il partner di tanti anni di governo, a designare un suo rappresentante per la poltrona dietro il tavolo a ferro di cavallo al piano nobile di Palazzo Spada: ai trattava di Mario Todini.
Il Pci uscì da quelle elezioni diviso, così come ad esse s’era – d’altra parte – presentato, a causa della delicatezza di un passaggio politico che si andava dipanando, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, tra fughe in avanti (poche) e resistenze (parecchie di più). In via Mazzini, sede della Federazione provinciale del Pci, era da poco iniziato un processo di ricambio della classe dirigente. Stava acquistando peso quel personale politico formatosi in seno al partito, alla scuola delle Frattocchie, attraverso il ’68, la militanza e gli scontri di piazza degli anni ‘Settanta. Per la candidatura a capolista alle comunali, che ormai per abitudine nel Pci equivaleva alla designazione a sindaco di Terni, s’erano scontrati due di quei “nuovi”, entrambi “figli d’arte”: Roberto Piermatti e Maurizio Benvenuti, cresciuti pasturando nell’humus della sinistra e del Pci. L’aveva spuntata il primo.
Una parte consistente della sinistra ternana chiedeva scelte coraggiose e decise: impegno su questioni quali la tutela dell’ambiente, l’informazione, la cultura – cari ai giovani, alle associazioni, ai movimenti progressisti. Era la sinistra che annoverava tra le proprie fila i figli di quegli operai che s’erano sacrificati non poco per la rinascita di una città messa in ginocchio dalla guerra, i quali spingevano per andare, ormai, oltre l’emergenza. I figli di quegli operai, ormai erano entrati nel mondo delle professioni, del lavoro intellettuale, della cultura; erano imprenditori, in una città in cui per anni l’imprenditoria s’era sentita guardata con sospetto. Senza sottovalutare quei cattolici pronti a rispondere agli appelli di certi preti “progressisti”, a raccogliere nuove sfide sociali, alla pratica della solidarietà, alla tutela delle classi meno abbienti anche attraverso l’azione delle istituzioni pubbliche.
Nel Pci questa sinistra nuova doveva fare i conti con “i compagni” delle sezioni periferiche o che operavano nelle fabbriche. E doveva farli anche e soprattutto con l’apparato. Il Pci ternano era decisamente permeato di concetti, metodi e “sentire” tipici ai tempi della guerra fredda, della contrapposizione tra blocchi e, in Italia, tra il Pci e la Democrazia Cristiana, in una sorta di incrostazione “pankoviana”, più vicina, cioè, al regime della Germania dell’Est che non a quello della “madre” Russia.
Al di fuori della sinistra, nella società ternana, c’era una borghesia che operava in circoli chiusi, autoreferenziale ed avulsa, spesso per scelta o per pigrizia, dall’impegno civico e sociale. E una destra che aveva valorizzato la scelta sociale, il coinvolgimento, un nuovo protagonismo che pretendeva maggiori possibilità.
Un largo strato sociale chiedeva all’affacciarsi dell’ultimo decennio del XX secolo una politica diversa anche e soprattutto a livello locale: sollecitava concretezza e meno ideologia. Alle elezioni del 1990 aveva individuato nel Partito Socialista la forza politica che avrebbe potuto dare risposte. Il Psi di Bettino Craxi, che in Umbria si era coagulato attorno ad Enrico Manca, capo indiscusso (lo chiamavano “Il viceré”), e che annoverava anche a Terni personaggi decisi, pragmatici fino al punto di essere pronti ad imporsi se lo avessero ritenuto necessario.
Alla fine del 1992, su una situazione come quella sopra descritta, s’abbatté come un tornado la tangentopoli: Terni ne fu dissestata. La classe dirigente che, nella sinistra, stava faticosamente cercando di emergere fu spazzata via: prima il Psi, poi il Pci. Qualche colpo raggiunse anche il Partito Repubblicano. In risposta alla tangentopoli il consiglio comunale si dimise in blocco, dopo il fallimento di un tentativo disperato di dar vita ad una amministrazione di “salute pubblica”, subito naufragata a seguito di nuove indagini e all’arresto del sindaco socialista Mario Todini. Il Comune fu commissariato. La città cercò di mantenere la propria dignità. I cittadini non si rifugiarono, se non in parte largamente minoritaria, nell’antipolitica. Chiesero, invece, una “rivoluzione”: negli uomini, nei metodi, nella selezione e scelta dei vertici, nel modo di governare. Si sollecitavano professionalità e coraggio; si chiedevano volti nuovi e che non fossero solo quelli delle seconde file dei partiti.
Una buona mano arrivò con la riforma del sistema elettorale e l’elezione diretta dei sindaci, con cui Terni si misurò tra le prime città italiane. La nuova legge poneva una serie di questioni alle forze politiche: prima fra tutte l’individuazione di un candidato sindaco autorevole, nemmeno sfiorato dalla tangentopoli, che garantisse adeguata preparazione e che in modo chiaro non fosse diretta espressione dei partiti. Allo stesso tempo era d’obbligo formare coalizioni.
Ma era possibile mettere d’accordo schieramenti che s’erano fronteggiati per anni a volte anche aspramente? Fu così che i partiti “tradizionali”, i più forti e stratificati nella società cittadina, individuarono ognuno un proprio personaggio su cui puntare. Il Pds (nel frattempo c’è stata la svolta della Bolognina) lo trovò in Franco Giustinelli, esperto della vita politica ed amministrativa, ex parlamentare, direttore didattico, componente del consiglio comunale che s’era dimesso in blocco alla fine del 1992, mai coinvolto in alcuna brutta storia di finanziamenti illeciti; la Dc presentò Renzo Nicolini, cattolico, avvocato; a livelli pubblici specie negli ultimi anni si era occupato più che altro di politica sportiva, mantenendo un ruolo di prestigio in campo nazionale, ma defilato a livello locale; l’Msi scelse una donna, Antonella Baioletti, insegnante, anni di impegno dietro le spalle; un Psi sfilacciato dalla tangentopoli si affidò al volto pulito di un preside, per di più romano che viveva a Terni, Sergio Lera. Rifondazione comunista, non trovando un accordo col Pds, propose Renato Covino, storico all’Università di Perugia. I Verdi–Sole che Ride, candidarono Flavio Frontini, presidente di Pro Natura; il movimento la Rete, Torquato Secci presidnte dell’associazione Vittime della strage di Bologna; persino il Psdi presentò una propria candidatura con Sabrina Dindalini, una ragazza disoccupata di Collestatte.
Ci fu chi ritenne necessario andare oltre i partiti dando vita a liste civiche, e nacquero così altre candidature: Stefania Parisi, per Unione civica, un movimento di cattolici; Paolo Leonardi, per il Cpa (Caccia, pesca e ambiente) raggruppamento nato sull’onda della protesta contro le limitazioni della caccia e che già aveva ottenuto un certo consenso nel 1990; Antonio Tacconi, fu il candidato di una lista che si chiamò Giovani per Terni. E poi c’era Gian Franco Ciaurro, sostenuto da Alleanza per Terni, raggruppamento che prendeva ispirazione da analoga esperienza verificatasi ad Isernia e che faceva riferimento, in qualche modo, ad un movimento che, nel resto d’Italia, si chiamava Alleanza Democratica e che, sorto sulla spinta della delusione e del rigetto del sistema tangentizio dei partiti, raccoglieva progressisti, ambientalisti, “referendari”, gente delusa dal Psi e dal Pci –Pds e seguaci della sinistra laica, liberale e repubblicana.
Verdi ambientalisti a parte, nelle maglie larghe dell’iniziativa che si andava costruendo a Terni c’era un po’ di tutto questo quando si trovò l’accordo per presentare la lista civica di Alleanza per Terni. Più marcata era forse la presenza di una borghesia “illuminata”, colta e in qualche modo dinamica che veniva dal mondo delle professioni, dai quadri dirigenti o tecnici delle grandi industrie (in special modo l’ex Montecatini), da piccoli e medi imprenditori di ispirazione cattolica e non. Oltre ai – non pochi – delusi del Pci e del Psi. Il nocciolo duro di ApT, in quanto a determinazione, era comunque rappresentato da repubblicani e liberali, i quali ultimi a Terni potevano contare su un seguito che aveva portato all’elezione di un consigliere comunale nel 1985, cosa che non avveniva da qualche lustro. Non mancava una “spolveratina” di massoneria.
Trovato l’accordo sulla proposta politica (poche cose da fare ma concrete e da fare davvero) andava individuato il candidato sindaco il più possibile somigliante all’identikit ideale. Varie le figure prese in considerazione, finché si pensò a Gian Franco Ciaurro, in quel momento Ministro nel governo Amato, ormai agli sgoccioli. A Terni Ciaurro era nato il 6 aprile del 1929 (in via Roma) ed aveva passato l’infanzia in via Aulo Pompeo, per poi trasferirsi con la famiglia prima a Perugia, quindi a Roma. Vantava un curriculum di tutto rispetto, vice e poi segretario generale della Camera dei deputati, di lui si conosceva il legame di grande stima e collaborazione che lo aveva legato a Nilde Iotti. Temporaneamente ministro, era consigliere di Stato, ed insegnava diritto all’università Luiss. Una figura di prestigio, coinvolto molto marginalmente nei partiti: faceva parte del Pli, ma l’impegno era arrivato in tempi recenti con il pensionamento.
Quando arrivò a Terni per presentare ufficialmente la propria candidatura avviò con la città un rapporto che, attraverso piccole prese di posizione, spiazzò ogni “ingessatura” politica e di parte fino ad allora in uso: accettò i confronti alle Feste dell’Unità, dopo aver gustato un piatto di “ciriole alla ternana” allo stand gastronomico; affermò che i suoi predecessori avevano proposto alcune cose buone e quindi lui avrebbe portato avanti quelle iniziative, “perché una cosa fatta bene è tale chiunque l’abbia pensata”; cominciò a parlare di una città bella; spiegò di tenere alla sostanza dei provvedimenti, ma non per questo di poter consentire che Terni continuasse a restare grigia, seriosa anche nell’aspetto. Dimostrò di saper pensare “in grande”, di essere intenzionato a dare una spallata decisiva al velo di provincialismo che avvolgeva la città. Per il resto, a tessere rapporti, a coglierne le esigenze, lo aiutarono coloro che lo avevano con una certa insistenza (ma anche con un minimo di timore reverenziale) convinto ad accettare la candidatura.
La sorpresa si palesò già al primo turno elettorale. Con dodici candidati in lizza era impensabile che qualcuno avrebbe raggiunto il 50% dei voti più uno necessari per vincere al primo turno. Sicuramente si sarebbe andati al ballottaggio tra i due più votati. Il pronostico era ovvio: Franco Giustinelli e Renzo Nicolini, il Pds e la Dc. Invece Nicolini non ce la fece. Alla Dc costò cara la diaspora dei cattolici che fu motivata in parte anche e proprio dalla candidatura dell’avvocato: non andò a lui il consenso dei cattolici di sinistra che si riconobbero in parte proprio in Alleanza per Terni ed in parte nel Pds; né quello dei cattolici un po’ meno “di sinistra” che seguirono l’onda della candidatura di Stefania Parisi per Unione Civica.
Al primo turno a Giustinelli andò il 33,64%; a Ciaurro il 20,76. Nicolini si fermò al 14,39.
Un risultato che preoccupava più che altro Giustinelli e il Pds. Non Alleanza per Terni e tanto meno Ciaurro. Lo zoccolo duro della sinistra pidiessina era quello. Il partito non aveva superato, nei fatti, le divisioni nate già prima ed in vista della definizione delle candidature del ’90 e che tangentopoli rese in alcuni casi ancora più viscerali, più profonde, più insanabili perché innescate da comportamenti e prese di posizione collegate alle disavventure giudiziarie. Diversità di vedute e di orientamento, inoltre, ebbero eco anche nella definizione del candidato sindaco con la divisione tra i sostenitori di Giustinelli e quelli di Claudio Carnieri.
Al ballottaggio, comunque, almeno in teoria per un sindaco del centro–sinistra avrebbero potuto schierarsi coloro che al primo turno avevano dato il consenso al Psi (4,74%), alla Rete (3,44%), a Rifondazione Comunista (6,07), Verdi (1,23), Giovani per Terni (1,99), Cpa (1,76). A conti fatti con la matita copiativa c’era di che sopravanzare il 50 per cento necessario. Ma ormai tra Ciaurro e Terni il ghiaccio era definitivamente rotto, la curiosità di provare la novità, la voglia di dare uno scossone, l’empatia del candidato fecero il resto.
Per un’incollatura, ma nelle urne c’era la poltrona per Gian Franco Ciaurro.