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di Lucio Caporizzi

La transizione energetica rappresenta, insieme alla transizione digitale ed alla coesione ed inclusione sociale, uno dei principali obiettivi che guidano le politiche europee, esplicandosi nella strategia del Green Deal europeo.
Scienza e modelli climatici dimostrano inequivocabilmente come il cambiamento climatico sia in corso, ed ulteriori cambiamenti siano ormai inevitabili: la temperatura media del pianeta è aumentata di circa 1.1 °C in media dal 1880 con forti picchi in alcune aree (e.g., +5 °C al Polo Nord nell’ultimo secolo), accelerando importanti trasformazioni dell’ecosistema (scioglimento dei ghiacci, innalzamento e acidificazione degli oceani, perdita di biodiversità, desertificazione) e rendendo fenomeni estremi (venti, neve, ondate di calore) sempre più frequenti e acuti. Pur essendo l’ulteriore aumento della temperatura ormai inevitabile, è assolutamente necessario intervenire il prima possibile per mitigare questi fenomeni ed impedire il loro ulteriore peggioramento.
Serve, dunque, una radicale transizione ecologica verso la completa neutralità climatica e lo sviluppo ambientale sostenibile per mitigare le minacce ai sistemi naturali e umani: senza un abbattimento sostanziale delle emissioni clima-alteranti, il riscaldamento globale raggiungerà e supererà i 3-4 °C prima della fine del secolo, causando irreversibili e catastrofici cambiamenti del nostro ecosistema e rilevanti impatti socio-economici.
Si usa l’espressione “transizione” non a caso, in quanto si tratta di un processo graduale, complesso ed articolato, che dovrebbe infine portare ad una forte riduzione delle emissioni di gas serra, sperabilmente in tempo per evitare il drammatico innalzamento della temperatura media sopra accennato. Come ogni transizione, tale processo si dipana attraverso l’attuazione di varie fasi, fino ad uno stato finale, corrispondente all’obiettivo desiderato, dove si possa disporre dell’energia necessaria – possibilmente non limitata alla parte privilegiata della popolazione mondiale – senza per questo distruggere l’ambiente dove viviamo. La fase di partenza è rappresentata dall’uso massiccio di combustibili fossili, il punto d’arrivo da una prevalenza di fonti di energia rinnovabili e pulite e, tra molti anni, magari da energia nucleare pulita, derivante non da fissione nucleare ma da fusione, la stessa energia del Sole.
La transizione è stata da tempo individuata in gran parte nell’aumento dell’uso del gas metano, fonte fossile anch’essa, sì, ma meno inquinante di carbone o petrolio, in sostituzione di carbone e petrolio, con conseguente forte aumento dell’uso del gas naturale, di cui si conoscono importanti giacimenti in molte parti del pianeta.
L’impennata del prezzo del gas a seguito della ripresa produttiva globale post Covid attesta del forte aumento di domanda di tale combustibile, aumento cui ha contribuito non poco il consumo della Cina, che tende anch’essa a spostarsi verso il gas naturale.
La guerra iniziata con l’aggressione della Federazione russa nei confronti dell’Ucraina, oltre alle morti, sofferenze e distruzioni, ha anche ulteriormente fatto impennare i prezzi, con punte giornaliere di 200 euro a Mwh, dai 20 euro di prima.
È evidente che questi forti aumenti di prezzo mettono in crisi il modello di transizione energetica sopra delineato. D’altra parte l’individuazione di fonti alternative è più facile a dirsi che a farsi e non per mancanza di offerta. Il combinato disposto di costi ed impatto ambientale ha portato l’Europa ad una esposizione alle importazioni pari a circa il 90% del proprio fabbisogno. A sua volta, l’interdipendenza energetica suddivide il rischio tra produttore e consumatore: noi europei siamo esposti al rischio d’interruzione o riduzione delle forniture tanto quanto i produttori ai quali ci rivolgiamo in via quasi esclusiva. La rigidità della rete di trasmissione vincola i ricettori, ma anche i fornitori. L’equilibrio che così si determina rende il rapporto tra fornitore e consumatore sostanzialmente stabile.
Inoltre, un’eventuale interruzione delle importazioni europee di gas e petrolio dalla Russia, come ha notato Janet Yellen, oltre a comportare un forte danno economico per l’Europa, non funzionerebbe granchè come sanzione, posto che l’ulteriore rialzo dei prezzi che ne conseguirebbe compenserebbe in buona parte i minori ricavi derivanti dalla riduzione delle quantità esportate.
Uno strumento per rendere più flessibile il mercato del gas è quello di importare Gnl, cioè gas naturale liquefatto, che viaggia quindi per nave e non su tubo, ma esso richiede comunque impianti di rigassificazione nel Paese di destinazione.
Il nostro Paese, importa oltre il 95% dei circa 76 miliardi di metri cubi di gas che consuma annualmente, di cui circa il 13% tramite i tre impianti di rigassificazione esistenti ed il restante attraverso cinque gasdotti, dei quali il più importante è il TAG che, attraverso Ucraina ed Austria, si connette alla Rete Nazionale a Tarvisio, portando, nel 2021, circa 29 miliardi di metri cubi di gas russo, pari a circa il 40% del metano importato.
Le tensioni sul mercato petrolifero e, soprattutto, del gas, le forti impennate dei prezzi, le incertezze nelle forniture, tutto ciò ha messo in prima piano, presso i Governi e l’opinione pubblica, il tema della sicurezza energetica, con il rischio di far perdere di importanza al tema dei cambiamenti climatici e, quindi, della transizione energetica. Con un’applicazione un po’ all’ingrosso del vecchio adagio “Primum vivere, deinde philosophari”, da più parti si sono levate voci in direzione di un accantonamento, seppur temporaneo, degli obiettivi di riduzione di emissione di gas serra, per concentrarsi, invece, verso la ricerca di fonti alternative di combustibili fossili, ivi incluso, addirittura, il recupero del carbone, rimandando a tempi migliori lo sviluppo delle rinnovabili e dell’idrogeno verde.
Sarebbe un grave errore, invece, rallentare il processo di transizione energetica che, anzi, se fosse avanzato con maggior celerità, ci permetterebbe, ora, di vivere con maggior serenità la crisi energetica che attraversiamo.
Sole e vento hanno il difetto di non poter essere “regolati” a piacimento, ma, per contro, hanno il grande vantaggio – oltre ad essere puliti – che nessuno può ricattarci minacciandone il blocco per i propri interessi. Il nostro Paese, che era partito bene, ha negli ultimi anni perso molte posizioni in termini di capacità produttiva di energia da fonte rinnovabile. Citando letteralmente dal PNRR Italia “…la transizione sta avvenendo troppo lentamente, principalmente a causa delle enormi difficoltà burocratiche ed autorizzative che riguardano in generale le infrastrutture in Italia, ma che in questo contesto hanno frenato il pieno sviluppo di impianti rinnovabili o di trattamento dei rifiuti (a titolo di esempio, mentre nelle ultime aste rinnovabili in Spagna l’offerta ha superato la domanda di 3 volte, in Italia meno del 25% della capacità è stata assegnata).” I sedicenti ambientalisti, che si oppongono strenuamente all’istallazione di impianti solari o eolici in nome della difesa del paesaggio, dovrebbero sapere che quel paesaggio che amano tanto potrebbe non esistere più tra qualche decennio, se non si riducono le emissioni di gas serra sviluppando proprio quegli impianti che loro combattono.
Al tempo stesso, ovviamente, vanno assicurate le forniture energetiche, garantendosi dalle fluttuazioni di prezzo e quantità a seguito di eventi geopolitici e/o speculativi, in modo che il processo di transizione avvenga senza particolari traumi e scossoni (Just Transition viene chiamata a Bruxelles).
IL quasi blocco delle istallazioni di impianti di rinnovabili lamentato dal PNRR vale anche per l’Umbria, regione che poteva vantare in passato di una buona percentuale di energia da fonte rinnovabile, prevalentemente idroelettrica. Non fa piacere vedere – in un recente studio di un quotidiano nazionale – l’Umbria agli ultimi posti, insieme a Marche e Basilicata, nella classifica degli “indolenti”, cioè quelli con la più alta percentuale di progetti di rinnovabili presentati ma bloccati da vincoli normativi e pastoie burocratiche nell’iter autorizzativo.
Il Prof. Franco Cotana dell’Università di Perugia, ha recentemente previsto e auspicato che l’Umbria possa diventare la prima regione italiano completamente carbon-free. Detto da un esperto indiscusso in tema di energie rinnovabili come lui è senz’altro un annuncio che dà speranza, ma a patto di rivedere alcuni assurdi vincoli normativi e rilanciare (perché in realtà fu già lanciato anni fa, seppur con poco seguito) un progetto basato su una visione dell’Umbria come regione green a tutti gli effetti e non solo nel, pur suggestivo,
slogan pubblicitario. La nostra Umbria verde è in prospettiva seriamente minacciata dai cambiamenti climatici, ma anche senza spingersi tanto in avanti nel tempo, va tenuto presente il suo sistema produttivo tuttora con un’intensità energetica del Pil tra le più alte d’Italia, l’altissimo ricorso al mezzo di trasporto privato, con conseguenti grandi numeri di incidenti stradali, il diffondersi della precarietà ed irregolarità dei rapporti di lavoro, da cui anche l’alto numero di incidenti sul lavoro.
Forse sarebbe meglio crogiolarsi meno sulle eccellenze umbre – che pure esistono – e lavorare più perché la regione intera possa eccellere.