di Giulio Massa
E poi c’era il libro. Sì, il libro scritto da Eugenia Roccella. Nel day after di una pagina brutta e penosa nella storia del Salone del libro, si discute un po’ di tutto. L’indicazione forse più confortante è che l’opposizione di sinistra sceglie di consegnarsi mansueta e collaborativa alla solita cerchia di media ed intellettuali di riferimento impegnati, da trent’anni e più, a dettare la consueta, fallimentare linea: la delegittimazione dell’avversario, la reductio a “fascismo” delle opinioni diverse, lo slittamento del confronto dal piano politico a quello etico-antropologico. Solo con la resa a questo approccio infantile e settario si può, infatti, spiegare la reazione piddina all’episodio di sabato. “Il Pd che non condanna l’intolleranza violenta di “Torino è una cosa mai vista”, tuitta Mario Lavia, editorialista de Linkiesta. Impossibile dargli torto alla luce dei capziosi distinguo tra dissenso e violenza (evidentemente non basta
aver impedito la presentazione, conta che non lo si sia fatto menando le mani) o della surreale impuntatura, da parte di quanti obtorto collo riconoscono che prevaricazione c’è stata, sulla non applicabilità, nella fattispecie, dell’accusa di fascismo (tantomeno, sostengono costoro, nella variante pasoliniana del “fascismo degli antifascisti”). Insomma, c’è qualcuno che, oltre ad arrogarsi da sempre di poter rilasciare le patenti di sinistra, ora vuole decidere anche, a proprio insindacabile giudizio, quando si può evocare il fascismo e quando no.
Per non dire, infine, dell’improbabile tentativo di contrapporre all’aggressione “de sinistra” a Roccella un’aggressione targata destra ai danni di Nicola Lagioia e sostanziatasi in due superflui “vergognati” urlatigli da una sguaiata parlamentare di FDI. Lagioia è un grande scrittore (non è concessione retorica, chi scrive si è emozionato a leggere i suoi libri), come direttore del Salone ha ricevuto plausi unanimi e trasversali, ma questo non esclude che possa aver gestito male l’episodio di sabato, di fatto arrendendosi alle modalità prevaricatrici dei contestatori (lo avrebbe fatto anche con un autore di diverso orientamento?).
Ma tutto quanto precede contribuisce ancora a lasciare nell’ombra la vera vittima, ricordata all’inizio, di quanto accaduto sabato: un libro, perché era un libro che Roccella era stata invitata a presentare, perché questo si fa al Salone del Libro. A sinistra, un tempo, si sarebbe considerato un delitto annullare un “dibbattito” su un libro.
Ebbene, chi ha letto il volume della ministra può ben dire che, se non un delitto, impedire una conversazione su “Una famiglia radicale” (Rubbettino editore) ha equivalso, senza per questo gridare al capolavoro, ad un oggettivo impoverimento. È stata un’occasione mancata per riflettere. Per riflettere su un pezzo di storia italiana e per scoprire qualcosa di più sulla parabola umana e politica di Eugenia Roccella, la quale magari, in un confronto pure acceso ma civile, si sarebbe messa in discussione come fa nel libro, con quella profondità altrimenti inarrivabile che si raggiunge solo quando si affronta la matassa aggrovigliata e naturaliter dolorosa del rapporto con i propri genitori.
“Una famiglia radicale” è un riuscitissimo memoir che Roccella dedica alla sua famiglia, quella ruotante intorno alla figura, debordante, impetuosa e fragilissima nel contempo, di Franco Roccella, tra i fondatori del Partito Radicale. Ma finisce, in realtà, per risultare molto di più. Stante il carattere totalizzante che la militanza radicale ebbe nella famiglia Roccella, compresa la giovane Eugenia in prima fila nella campagna abortista (curò lei, nel 1975 , il libro “Aborto: facciamolo da noi”) , il racconto, in un intreccio sempre ben governato tra politico e privato, si allarga da “una” famiglia radicale “alla” famiglia radicale, a quanto questo filone politico-culturale ha rappresentato di dirompente, e anche di occasioni mancate, nell’Italia delle due chiese, quella democristiana e quella comunista.
Non a caso, la scrittura di Roccella tratteggia e scava ritratti esclusivamente di persone della cerchia familiare, ma con una, imponente eccezione rappresentata da Marco Pannella. “Tutto quel che so della politica l’ho imparato da Marco, e non l’ho più dimenticato”, confessa ancor oggi Roccella. Il racconto del rapporto tra Franco Roccella e Pannella, intellettualmente passionale, fraterno e fratricida, tragico nei suoi esiti, è in fondo, nelle pagine del libro, il racconto di una colossale dissipazione: di un’amicizia e di una prospettiva politica.
Ma la traversata storica che, in meno di duecento pagine, ripercorre la saga dei Roccella dalla natia Riesi, in provincia di Caltanissetta, fino a Bologna e Roma ci restituisce soprattutto il vissuto, il background della ministra.
Chiuso il libro, non senza obiettiva ammirazione per lo stile che si mantiene sempre sufficientemente analitico ed emotivamente trattenuto nonostante l’evidente incandescenza sentimentale della materia trattata, sappiamo chi è e da dove viene Eugenia Roccella. Nessun vissuto, al fondo, è davvero banale, ma di certo non lo è stato quello della ministra, nel privato come nella dimensione pubblica.
Un vissuto carico di cesure, rivolgimenti, situazioni in lancinante contrasto tra esse: dall’infanzia nello “scalcinato sconosciuto paradiso” di Riesi, affidata ad una zia che poté così temporaneamente soddisfare uno struggente, impossibile desiderio di maternità, alla vita a Roma con genitori che invece sapeva non averla mai voluta e per i quali diventerà lei stessa precocemente come una madre; dalla militanza politica nella famiglia allargata dei radicali all’individuale percorso di fede. “Una famiglia radicale” si arresta con la fine della famiglia di origine, con il racconto della scomparsa dei genitori di Roccella. Non c’è nulla dell’altra Roccella, della Roccella che, tornata dopo anni alla politica, salta il fossato tra i due schieramenti, prosegue ad occuparsi degli stessi temi, ma su posizioni diametralmente opposte. Non c’è attualità nel libro e quindi neppure la Roccella “pericolosa” di oggi, la ministra che turba il sonno di tanti e, soprattutto tante.
“Sul mio corpo decido io” le hanno rinfacciato quante hanno impedito ieri la presentazione del libro. Sacrosanta rivendicazione, la cui esternazione peraltro non era affatto alternativa al consentire lo svolgersi dell’evento programmato.
Se è consentito un suggerimento non richiesto sul modo di disporre, con altrettanta autonomia, della propria mente, si segnala l’utilità, dopo aver contestato rumorosamente una ministra, di sedersi ad ascoltare il racconto della sua vita, le sue idee, comprese quelle dalle quali ci sente minacciati, di incalzarla con domande per capire perché ha così radicalmente cambiato le proprie opinioni. Poi, volendo strafare e già che ci si trova al Salone, si può anche acquistare “Una famiglia radicale” (la dedica quella no, è cringe) e scoprire una dei miliardi di ipotesi di vita diverse dalla propria.
Ma per tutto questo ci vuole laicità, laicità intellettuale che nulla ha a che vedere con il banale affrancarsi dalla religione. Quella laicità radicale, laicità come metodo, della quale in Italia furono maestri i Radicali. Quelli, per intenderci, come Franco Roccella che, ateo ed anticlericale, accolse la richiesta della figlia di accedere ai sacramenti.
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