di Franco Raimondo Barbabella
Basta ascoltare la mattina qualche buona rassegna stampa per rendersi conto che abitiamo un Paese conciato piuttosto male e che in un mondo in subbuglio né da chi governa né da chi si oppone viene la sicurezza di saper navigare nel mare in tempesta.
Si dice crisi e la si aggettiva in vario modo. Si dice crisi della politica e della democrazia e la si intende come crisi dei partiti, spesso senza riferirsi al fatto che sono i partiti che organizzano la democrazia rappresentativa. Raramente si va oltre. Ma la crisi è crisi di sistema e la crisi della politica è nel modo di intenderla e di praticarla.
È questo l’aspetto più grave perché è crisi di classi dirigenti, crisi delle élites, la parola impronunciabile. Anzitutto crisi culturale, venir meno degli strumenti adatti a interpretare le trasformazioni della realtà e ritardi e/o incapacità nel ricercarne di nuovi e adeguati alla bisogna.
Si assiste a cambiamenti strumentali, quasi mai strutturali. Ci si adatta. Si preferisce buttar via con l’etichetta di vecchio ciò che non solo è ancora buono ma è strumento essenziale di orientamento. Ad esempio la razionalità critica che ha origine nell’illuminismo e ha trovato sviluppi straordinari nel pensiero scientifico.
Il civismo vuole essere un tentativo organizzato di risposta a questa crisi complessa. In termini di riflessione, di organizzazione e di scelte politiche. Si vedano i nostri documenti. Oggi la presenza civica nelle amministrazioni locali e regionali è rilevante, ma per essere capaci di esprimere visione e progetto, cioè per esser classe dirigente, i civici dovevano unirsi. Era necessario darsi un pensiero comune, una base di orientamenti ideali e un’organizzazione. Oggettivamente i civici erano già qualcosa di più di una rappresentanza locale, ma ci doveva essere il passo formale. L’unità dei civici in soggetto politico nazionale era ormai una necessità.
Questa necessità è diventata realtà lo scorso 17 giugno a Roma con la fondazione della Federazione dei Civici Europei. Il civismo italiano che si è riunito a Roma non è civismo per caso e non si è riunito a Roma per caso. Stiamo parlando appunto del civismo autentico, quello che non sorge in occasione degli appuntamenti elettorali in appoggio a partiti o candidati, ma quello che ha capito la stretta relazione tra governo del territorio e visione generale, quello che pensa e pratica la politica come progetto di comunità in rete, che prospetta soluzioni locali legate a soluzioni generali.
È il civismo che si pone il problema non solo di come si fronteggia una crisi che non è crisi qualunque e temporanea ma passaggio di fase, e che vuole perciò partecipare da protagonista alla costruzione di un progetto riformatore che riallinei l’Italia alla prospettiva di un’Europa federale assunta come sfida determinante per stare dentro la storia nella fase attuale di trasformazione del mondo.
Si è riunito attraverso un processo federativo alimentato dalla tre alleanze civiche già costituite, Alleanza Civica del Nord, Alleanza Civica Italia Centrale, Mezzogiorno Federato. Tre alleanze di liste, soggetti e movimenti civici, che si sono federati al livello delle tre macroaree del Paese, Nord, Centro e Sud, prefigurando così e volendo stimolare, più che una suggestione una speranza operativa, una riorganizzazione del Paese per macroregioni, che non è detto che debbano essere tre ma che siano comunque l’idea portante, la prospettiva, il riferimento per un percorso di seria riforma istituzionale. E qui già c’è una visione del Paese che vogliamo e anche un campo delineato di battaglia politica.
Non è vero che la prima urgenza è la stabilità e il rafforzamento dell’esecutivo, perché semmai è il contrario: il problema è il rafforzamento della rappresentanza e del potere del legislativo, di un Parlamento umiliato nei numeri dopo la riforma imposta dai 5 stelle e subita colpevolmente dagli altri, nella rappresentanza popolare e nei suoi poteri, resi evanescenti sia dalle prevaricazioni dell’esecutivo sia dal frequente debordare dei poteri esterni.
Non è vero che i comuni funzionano a meraviglia e che l’elezione diretta del sindaco può diventare il modello del “sindaco d’Italia”: Anche lì alla stabilità è stata sacrificata la rappresentanza, e al potere del sindaco (raramente della Giunta) è stato sacrificato il ruolo del Consiglio, spesso perfino la dignità della funzione di rappresentanza del consigliere comunale.
Come non è vero che si può fare a meno di un ente intermedio tra la frammentazione municipale e il governo regionale, per cui ben venga finalmente la chiarificazione delle funzioni e dell’identità istituzionale della Provincia.
Ma soprattutto non è vero che la necessità di riformare il regionalismo consiste nell’ulteriore frammentazione del sistema mediante le autonomie differenziate, con la conseguente ibernazione di un sistema di potere verticistico non solo ostacolo ad una logica di reti territoriali ma di classi dirigenti culturalmente aperte capaci di legare il governo dei territori ad una visione interrelata in dimensione europea.
Il civismo pone dunque un problema di riforma istituzionale organica. Una riforma non più puntiforme e assoggettata alla spartizione delle bandierine elettorali dei contraenti i patti di coalizione, coerente non solo per funzioni, ma perché capace di ridare fiato e ragione di impegno ai cittadini, da considerare di nuovo come soggetti titolari di diritti e di doveri e non puri terminali di propaganda, oggetti di consenso passivo. Non bandierina, ma ricostituente della democrazia.
Pone un problema di riforme di sistema con logica e cultura federalista. Qui sta anche l’importanza del fatto che a dar luogo alla Federazione dei Civici Europei sia, insieme ad Alleanza Civica del Nord e a Mezzogiorno Federato, anche Alleanza Civica Italia Centrale. Non è solo questione di superamento della storia di un Paese attanagliato dalla contrapposizione tra questione meridionale e questione settentrionale, questione che ha escluso l’esistenza stessa di un’Italia Centrale con ruolo e problemi specifici nella politica del Paese.
È piuttosto questione di specificità di problemi, di carenze e di potenzialità (infrastrutture, rete dei servizi, Roma capitale, ecc.), potremmo anche dire questione di una nuova concezione dell’unità dell’Italia che ne faccia considerare ruolo e iniziative dentro una geopolitica che cambia e sposta gli assi degli interessi strategici del Paese proprio verso il Centro-Sud e il Mediterraneo sempre più Mare nostrum, come diciamo nei documenti fondativi. Ed è questione di una cultura federalista che ci fa pensare l’Italia come regione d’Europa e non ancora come nazione che lotta per la sua affermazione tra le nazioni, una visione questa otto-novecentesca, che non tiene conto dei cambiamenti indotti dalla comparsa dei cigni neri a partire dalla fine del primo decennio di questo secolo: la grande depressione, la crisi climatica, la crisi pandemica, la crisi migratoria, la guerra di Putin e le sue conseguenze sul piano dei rifornimenti energetici e alimentari.
In un mondo così, che cosa vuol dire fare politica? Quale è la visione che ci può orientare? Le risposte non sono già pronte ma mettere qualche punto fermo, al di là di quelli già espressi, è possibile. Oggi per esempio c’è bisogno di meno nazione e di più Europa. Non di più Europa burocratica ma di più Europa politica. Più Europa che abbia un bilancio comune, una difesa comune, una politica estera comune. Più Europa vuol dire Europa federale! Quella di Altiero Spinelli e di Luigi Einaudi. Quella dei padri fondatori che avevano visto lungo ma non potevano andare oltre il già miracoloso traguardo di poter porre fine ai secolari conflitti fratricidi dei popoli europei. All’aggressività delle autocrazie si deve risponde con più democrazia. All’aggressione di Putin contro l’Europa si deve risponde con più Europa.
D’altronde è in questo contesto di un Paese che interpreta il federalismo nazionale come costellazione di regioni d’Europa che tornano ad avere senso e ruolo le idee che hanno fatto grande questa parte di mondo, faro di cultura, di progresso civile e di democrazia, che paga prezzi salati ma esce dai totalitarismi, si inventa istituzioni comuni e nelle crisi scopre sempre nuove ragioni per guadagnare nuovi traguardi.
Noi ci uniamo anzitutto in nome dell’Europa. Noi vogliamo che l’Europa non torni indietro. Noi vogliamo che l’assalto del sovranismo venga respinto in nome dei gradi valori e delle grandi conquiste di civiltà che hanno mosso Putin ad attaccare l’Ucraina e attraverso essa la stessa Europa. Una vera battaglia della vita, e noi ci siamo!
Qui si recuperano, dicevo, i valori fondanti, oggi spesso dimenticati o distorti o annacquati. Anzitutto il valore della libertà in tutte le sue declinazioni, quelle che illustra Michael Walzer nel suo ultimo libro “Che cosa significa essere liberale”. Non dimentichiamo che qualche giorno fa, il 5 giugno di trecento anni fa nacque Adam Smith che con il suo “La ricchezza delle nazioni” ha segnato in modo indelebile la storia dell’Occidente e del mondo. E l’anno prossimo saranno trecento anni dalla nascita di Immanuel Kant, maestro di riflessione sulla via della libertà. Noi non dimentichiamo i grandi maestri che hanno fatto dell’Europa un faro di civiltà.
Insieme alla libertà come fondamento della responsabilità e della democrazia, l’altro punto che si staglia potente all’orizzonte nella nostra visione di lotta alle chiusure sovraniste e alle deviazioni antidemocratiche del populismo è l’idea di persona. Un’idea insieme cristiana e laica, che in termini giuridici diventa individuo, ma che non concede nulla alla trasformazione di questo nella competizione feroce dell’individualismo separatista e singolarista portandosi incorporata la dimensione della relazione con l’altro in una comune visione del comune destino umano.
Ecco allora che può avanzare la nuova possibilità di un riposizionamento nell’universalismo, la dimensione più propria della modernità, la dimensione concettuale e pratica che non nega le differenze, ma non le abbandona al conflitto indicando la possibilità di collaborare appunto ad un comune destino.
Con conseguenze molto forti anche sul piano delle scelte di vita. Ad esempio la consapevolezza di un comune destino non ci indirizza solo a politiche di rispetto attivo verso l’ambiente, di controllo umano della tecnica, di indirizzo umanizzante degli algoritmi, di politiche di pace nella giustizia, ma ci impedisce di mercificare la vita e in essa il corpo, in particolare e in primo luogo il corpo della donna.
Non basterà tutto questo per uscire dal pantano. Sappiamo di rappresentare un inizio e un seme. Nasciamo però perché l’insieme delle nostre esperienze e delle culture riformatrici di cui siamo portatori ci dice che c’è un patrimonio che può essere messo a disposizione del Paese.
Sono le esperienze e le culture di chi vive le realtà locali e territoriali non tanto come problema quanto piuttosto come risorsa troppo spesso compressa e male utilizzata. Ora ci siamo e possiamo aprire un dialogo proficuo con le altre forze che abbiano obiettivi coincidenti.
La guerra ispirò gli artisti, rari i pacifisti. Ora è un videogioco