di Ida Meneghello
Lo sapevo che non avrei potuto vedere il nuovo film scritto, diretto e interpretato da Antonio Albanese “Cento domeniche” con il distacco con cui sempre si dovrebbero guardare i film, un distacco che peraltro a me riesce difficile a prescindere, ed è anche per questo che non faccio la critica di mestiere. Ma nel caso di questa pellicola mi era proprio impossibile.
A chi è capitato di fare giornalismo economico come è capitato a me, prima o poi ha dovuto occuparsi di brutte storie che hanno sconvolto le esistenze di centinaia di migliaia di persone, gente che ha pagato con i risparmi di una vita i troppi crac bancari avvenuti in Italia, combinato disposto di comportamenti truffaldini e vigilanza inadeguata. Il film di Albanese non è però il racconto del fallimento dell’immaginaria Banca Popolare Artigiana, “il confessionale” di cui tutti si fidano perché tutti si conoscono, e subito vengono in mente le storie truci della Popolare di Vicenza e della Veneto Banca. Il film offre allo spettatore, ed è questo il suo valore, il punto di vista delle vittime, soprattutto il senso di colpa e di vergogna che vivono i truffati, gli stessi sentimenti (pensiero inevitabile in questi tempi bui) che vivono le donne vittime di violenza. Questa chiave molto umana e poco finanziaria viene raccontata attraverso la storia di Antonio Riva, il miglior tornitore di Olginate (il paese in provincia di Lecco dove Albanese è nato e dove davvero è stato operaio tornitore prima di intraprendere l’avventura di attore), prepensionato che va ancora orgogliosamente in fabbrica gratis per insegnare il mestiere ai giovani, campione di bocce con gli amici di una vita, figlio premuroso con la madre affetta da demenza senile (la meravigliosa Giulia Lazzarini), un uomo gentile e perbene che sogna di coronare la sua vita di fatiche pagando il matrimonio dell’unica figlia. Ed è così che scopre che le obbligazioni sottoscritte con i risparmi di oltre quarant’anni di lavoro sono diventate a sua insaputa azioni della banca che sta fallendo. Tutto il paese ne è vittima, solo i grandi investitori come il suo cinico ex padrone (il sempre bravo Elio De Capitani) sono stati avvertiti in tempo e hanno potuto salvare il capitale. Ma dei piccoli risparmiatori chissenefrega? Loro pagheranno tutto, per di più vergognandosi per essere stati truffati, per non essere stati abbastanza furbi.
“Voglio solo sapere dove sono finiti i miei soldi. Io non sapevo nulla delle azioni. Sono io il coglione e non loro i delinquenti?” urla Antonio agli amici in ansia per quel calvario che non lo fa più dormire. Non basteranno gli psicologi né la class action intentata dagli altri risparmiatori a evitare un gesto clamoroso. Con una scritta che appare alla fine del film, Albanese dedica la pellicola alle centinaia di migliaia di persone vittime dei crac bancari. Ed è questo un cinema che si vede poco in Italia. Un cinema portatore di un messaggio forte, che utilizza bravi attori di teatro (oltre a Giulia Lazzarini ed Elio De Capitani ci sono Sandra Ceccarelli, Bebo Storti, Maurizio Donadoni, Liliana Bottone, Donatella Bartoli) e che non ammazza i dialoghi con colonne sonore insostenibili (il sommesso commento musicale è affidato a Giovanni Sollima). “Forse sono l’unico regista al mondo che è tornato a girare un film allo stesso tornio su cui aveva lavorato davvero”, ha raccontato a Gian Antonio Stella sul Corriere. È capace di questo e di molto altro Antonio Albanese, figlio del manovale Umberto, immigrato sul Lago di Como da Petralia Soprana, Madonie, Sicilia. Un film imperdibile, il magone è inevitabile.