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di Nicola Fano

La sua colpa, Paride l’ha scontata molto più tardi. Ma la madre, Ecuba, lo sapeva già dall’inizio. Secondo la mitologia greca, Ecuba, moglie di Priamo, prima di partorire fece un sogno premonitore: generava dal ventre una fiaccola che dava fuoco al palazzo reale. Per i greci, i sogni non erano il complesso distillato dell’inconscio che Freud ci ha consegnato, ma messaggi degli dèi; tutto era considerato indicazione divina. Sicché, dopo aver domandato lumi agli indovini per interpretare il sogno, Priamo seguì il loro consiglio e si disfò del figlio. Come al solito, il servo incaricato di uccidere il neonato non se la sentì di caricarsi di quella terribile responsabilità e si limitò ad abbandonarlo sulla cima del Monte Ida (capitò lo stesso a Edipo, sul Citerone). L’infante fu raccolto dai contadini che lo chiamarono Alessandro e lo crebbero infondendo in lui quel certo spirito campestre su cui Omero ricamò con grande maestria.
Di questi trascorsi campagnoli, Paride fu sonoramente sbeffeggiato dal fratello maggiore, Ettore, una volta che fu tornato a Troia e, riconosciuto dal padre Priamo, ripristinato nel suo ruolo principesco. Omero nell’Iliade lo racconta a tinte alterne: quando un giovane un po’ effemminato dedito al culto della bellezza (non solo quella bucolica), quando un arciere terribile (e infallibile). Fu lui, infatti, a uccidere il peggiore dei nemici, Achille, seppure con una freccia personalmente guidata da Apollo.
Il fatto è che Paride aveva un chiodo fisso – un’ossessione, diremmo con il linguaggio d’oggi – che tutti cercavano di celare, presentandolo sotto la luce meno negativa possibile. E invece proprio Paride, più ancora di Elena, fu la causa della guerra di Troia; molto prima che il conflitto scoppiasse; molto prima che Elena comparisse sulla scena, molto prima che lui si procurasse l’occasione per rapirla.
Andò così: tre dee vanitose, Era, Atena e Afrodite, si rivolsero a lui, quand’era ancora un eroe dei campi frigi (nell’attuale Anatolia), perché scegliesse chi tra loro era la più bella. Naturalmente, ognuna delle contendenti promise meraviglie in cambio del primato. Era garantì il governo dell’Asia, Atena assicurò saggezza e forza militare, mentre Afrodite, più furba, disse a Paride che, se l’avesse preferita alle altre due, gli avrebbe dato in dono la donna più bella del mondo. E sapete che cosa scelse, Paride? Scelse la bellezza; una bellezza senza saggezza, prossima alla voluttà. Proclamò Afrodite regina delle dee e per questo ebbe in cambio la promessa di conquistare la povera Elena, pure se nel frattempo la bella tra le belle aveva sposato il povero Menelao.
Tornato a Troia, Paride, come s’è detto, fu riconosciuto dal padre e reintegrato nel ruolo però, quando manifestò il proposito di prendersi quella che la dea le aveva destinato, tutti lo invitarono a desistere per evitare guai. Ma Paride aveva un chiodo fisso, appunto, e con un trucco si fece spedire a Sparta dove, con l’aiuto di Afrodite, sedusse Elena e se la portò via a Troia. Sulla compiacenza di Elena, le opinioni divergono, ma anche lei non ha mai goduto di buona stampa.
Il seguito è noto: in forza del giuramento di Tindaro (tutti i pretendenti di Elena, una volta sconfitti, avrebbero dovuto correre in soccorso del vincitore, se qualcuno avesse attentato alla solidità della coppia) Menelao che aveva conquistato legittimamente Elena e se l’era vista rapire da Paride, si rivolse al fratello Agamennone e a tutti gli altri principi greci perché lo aiutassero ad andarsi a riprendere la moglie traditrice. E fu la guerra di Troia, che è andata a finire come sappiamo: con un grande incendio del palazzo reale. Esattamente come la povera Ecuba, inascoltata, aveva sognato prima di generare il colpevole.
Perché questa lunga premessa? Perché l’iconografia di Paride ce lo consegna nel momento originario della sua rovina: la scelta fra le tre dee. E, infatti, a illuminare la sua storia è proprio il dubbio che precede la sua scelta.
La Galleria di Palazzo Cini, a Venezia, conserva uno dei dipinti meno iconici (o meno celebrati, se vogliamo) di Sandro Botticelli: Il giudizio di Paride, appunto, dipinto tra il 1485 e il 1488. I grandi capolavori degli Uffizi, La Primavera e La nascita di Venere, furono realizzati rispettivamente tra il 1477 e il 1482 il primo e tra il 1485 e il 1486 il secondo. E, dunque, la scena riferita a Paride che si domanda quale sia la dea cui assegnare il pomo d’oro, ossia il primato della bellezza, si colloca pienamente nella stagione maggiore di Botticelli.
Nel dipinto, le tre dee sono stranamente simili tra loro e la prescelta, Afrodite, quella alla quale Paride, unico personaggio seduto, sta per consegnare la mela dorata, non pare incarnare le fattezze della modella prediletta dal pittore, ossia Simonetta Cattaneo. È vero, come la giovane donna che Botticelli scelse per le sue Veneri, anche questa Afrodite mostra lineamenti affusolati e incarnato pallido; come la Cattaneo, questa dea veste abiti bianchi e ricchi di pieghe e intrecci, ma il fatto è che – a parte la tinta del vestito – i tre personaggi femminili sono molto simili. E moltiplicare per tre l’unicità di Simonetta Cattaneo non dovette sembrare lecito a Botticelli. Infatti, le tre hanno la stessa acconciatura, la stessa postura, le stesse mani e gli stessi piedi. La sostanziale identità di Era, Atena e Afrodite è il trucco che Botticelli utilizza per rimarcare la gravità del dubbio che attanaglia Paride. Come si fa a scegliere fra tre bellezze analoghe?
Che cosa significa dubitare? Significa riflettere prima di compiere una scelta; significa temere che la scelta cui si è propensi non è la migliore (anche dopo che la si è compiuta). E il canone occidentale – ossia il corpus della creatività di questa parte di mondo – ha codificato come primigenia fra tutte le scelte che ciascuno è chiamato a fare, quella tra la propria volontà e il destino. Quando queste due spinte entrano in conflitto (devo essere me stesso o non esserlo accentando di adattarmi a quel che il caso mi impone?) l’individuo è pronto a compiere un atto determinante, in grado di indirizzare la propria vita in modo definitivo. È accaduto a Oreste, a Edipo, a Antigone, a Amleto, a tutti gli eroi della creatività occidentale. Accade anche a Paride ed è sintomatico che molti pittori l’abbiano scelto per rappresentare il senso del dubbio. Vale a dire del conflitto tra volontà e destino. E, siccome gli dèi per i greci rappresentavano propriamente il Caso, cioè il Destino casualmente intessuto dalla sorte, le tre dee di questo mito mettono alla prova Paride per capire quale sarà la sua scelta di fondo: se accetterà il Fato o tenterà di pilotarlo a suo proprio vantaggio. Lo “spirito” di Paride, insomma, propenderà per la personale voluttà o per l’etica collettiva della saggezza? Dalla sua opzione, da come scioglierà il dubbio, dipenderà il futuro suo e del suo popolo. La guerra di Troia non sarà altro che il perpetrarsi di questo dubbio fino alla soluzione finale: vincerà la volontà o il destino? La risposta, naturalmente, è facile: vincerà colui che saprà adeguare la propria volontà a quel che càpita. Il cavallo di Odisseo non è che l’espediente con il quale i greci adattarono la propria esigenza di conquista (la volontà) a quel che era capitato in battaglia. Ma quel che era capitato era la colpa di Paride. Una colpa commessa molto prima, proprio lì dove Botticelli l’ha dipinta.