di Porzia Corradi
“Tra due liti d’Italia surgon sassi… e fanno un gibbo che si chiama Catria di sotto al quale è consacrato un ermo che suole esser disposto a sola latria.” Questo “ermo” (eremo) di cui parla Dante nel XXI canto del Paradiso è appunto l’Abbazia di Fonte Avellana (680 metri s.l.m.), che si trova alle pendici del Monte Catria (1701metri s.l.m.). Un’ottima destinazione per una passeggiata di inizio novembre se – come sembra – il meteo sarà favorevole. Da Gubbio, Fonte Avellana si raggiunge attraverso la strada statale 298 per Scheggia, in località Isola Fossara si trova un bivio che conduce all’abbazia.
Il monastero è abitato da una comunità di monaci camaldolesi ed è in buona parte visitabile. Per informazioni si può consultare il bel sito internet https://fonteavellana.it/
L’eremo nasce nel X secolo quando un gruppo di eremiti si insedia in questo punto dell’Appennino umbro-marchigiano. Il motivo della collocazione è esplicitato dal nome stesso “fonte-avellana”, cioè sorgente e nocciole: c’era acqua e cibo, quindi era un luogo dove si poteva sopravvivere.
Qui si intrecciarono le vicende di due grandi esponenti del monachesimo medievale italiano San Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, e San Pier Damiani, il grande riformatore della Chiesa nell’ XI secolo.
La grande abbazia, completamente costruita con bianchissima pietra calcarea, è immersa in un magnifico ambiente naturale fatto di montagne e boschi. Il gioiello architettonico del complesso è l’antico scriptorium che mantiene ancora “miracolosamente” la struttura originaria, uno dei pochi rimasti in tutta Europa. Si tratta di una costruzione quadrangolare che emerge dal fianco meridionale dell’abbazia lungo l’asse nord – sud. Gli arredi originali non esistono più, ma si sono conservate quattordici finestre di forma allungata che si aprono in alto nei muri perimetrali. Proprio questa serie di aperture costituisce il centro di maggiore pregio e interesse della costruzione. Sei finestre sono sul lato orientale, una sul lato corto a sud, altre sette sul lato occidentale: questa disposizione permetteva di sfruttare al massimo la luce solare, dalle prime ore del giorno fino al tramonto, per l’attività degli amanuensi e consentiva, grazie ad una meridiana disegnata sul pavimento, purtroppo perduta, di conoscere la data e l’ora del giorno. Per secoli, in questa stanza, generazioni di monaci hanno lavorato per scrivere e decorare i preziosi codici e hanno tenuto il conto del passare delle stagioni e degli anni. Nell’anticamera dello scriptorium, una grande stanza di collegamento con il resto del monastero, si svolgevano le attività per la preparazione dei fogli di pergamena usati per scrivere e gli stessi, una volta utilizzati, venivano qui rilegati in volumi. Il “prodotto finito” – il libro – veniva infine portato nella stanza sopra lo scriptorium che serviva da biblioteca per la conservazione e lo studio dei testi.
Fu in luoghi come questo che i monaci benedettini salvarono tra il VI e il XIII secolo, copiandoli uno ad uno, i testi di letteratura, teatro e filosofia degli antichi greci e romani, i testi sacri della Bibbia e i nuovi contributi culturali della loro epoca. Un lavoro che consentì il salvataggio della cultura del mondo antico, devastato dalle invasioni dei barbari e dal caos che ne seguì, e la fioritura di quella medievale.
Poi, nel XV secolo, l’invenzione della stampa semplificò tutto, permettendo di realizzare facilmente di grandi quantitativi di libri ad un costo estremamente basso. Il libro, che da sempre era stato un oggetto raro e di difficile produzione, divenne in breve tempo un bene di uso quotidiano per strati sempre più ampi della popolazione europea. Nel volgere di pochi decenni tra la fine del XV e i primi del XVI secolo l’attività dei monaci copisti diventò inutile e anche gli scriptoria, i luoghi destinati in tutti i monasteri al lavoro della scrittura, vennero eliminati o radicalmente trasformati per altre funzioni, andando quasi tutti perduti.