di Franco Raimondo Barbabella
Prima del 7 ottobre pensavamo di avere già percorso un buon tratto di strada verso la disumanizzazione. In pochi anni la nostra idea di umanesimo come liberazione da lacci interiori ed esteriori e costruzione di rapporti umani migliori nonostante inevitabili cadute e trasformazioni o addirittura metamorfosi, era stata già messa in crisi. Una sequenza di eventi stava infatti cambiando il panorama dell’Occidente, negli assetti politico-strategici, negli orientamenti culturali e nei comportamenti individuali, con manifestazioni diffuse di degrado intellettuale e morale di per sé allarmanti, pochissimo umani o forse addirittura troppo umani.
Stava avvenendo a causa di fattori quasi concomitanti, alcuni imprevisti, altri incombenti da tempo e a lungo sottovalutati: i cambiamenti climatici e le pandemie; l’estremismo islamista di Al Qaida e l’11 settembre; la spedizione antiterrorista in Afghanistan e poi l’abbandono di quel popolo martoriato alla furia oscurantista dei Taliban; la tragedia siriana e l’ISIS; le oscenità del regime teocratico degli Ayatollah; infine, la terroristica guerra di aggressione del regime putiniano contro l’Ucraina. Al Qaida, i Taliban e l’ISIS ne avevano fatte di brutte, ma il peggio era venuto proprio dai russi in Ucraina, cuore dell’Europa.
Pensavamo con ciò anche di essere di fronte alla crisi dei paradigmi con cui abbiamo interpretato a lungo gli eventi del nostro tempo, almeno a partire dalle riflessioni sulle conseguenze della globalizzazione, come crisi di un modello di sviluppo della civiltà occidentale e in particolare di un equilibrio geopolitico in necessario e inevitabile cambiamento. E ci pervadeva già una sensazione di attesa angosciosa. “Come se – aveva scritto Aldo Schiavone nel 2020 – il nostro senso e la nostra prospettiva del futuro, e lo stesso significato della storia, fossero stati inghiottiti da un grumo di pessimismo, di smarrimento e di incertezza che non si riesce più a sciogliere”.
Eppure quella era ancora una crisi di cambiamento, drammatica si ma pur sempre dentro percorsi possibili, magari anche perversi, di comprensibilità razionale: “Il tempo di Kairos”, un tempo di mezzo, un passaggio, una transizione. Una trasformazione radicale, o meglio una metamorfosi direbbe Ulrich Beck, però ancora interpretabile, e la conseguente necessaria ricerca di nuovi paradigmi. Insomma, la difficile opera del pensiero chiamato a interpretare il proprio tempo, come avrebbe detto Hegel.
Il 7 ottobre è come se ci fosse piombato addosso un meteorite. E all’improvviso il mondo ci è sembrato diverso, non la crisi di un assetto consolidato, non la crisi di valori e di paradigmi che non reggono l’urto della storia, ma proprio un mondo che crolla e che fa vedere le sue macerie, fa emergere le sue rovine accartocciate. Come fosse la negazione della storia, un ritorno indietro. Viene in mente l’attualità della suggestiva lettura che Walter Benjamin propose nel 1940 del quadro di Paul Klee Angelus Novus: davanti a sé il passato, “che accumula rovine su rovine, e le rovescia ai suoi piedi”, alle sue spalle il futuro, e una tempesta che lo spinge verso di esso con tale violenza che gli impedisce di muovere le ali e di mettere ordine nell’accaduto negando così in radice l’idea stessa di progresso.
Dunque di nuovo “Il tramonto dell’Occidente”? Giusto cento anni fa, nel 1923, Oswald Spengler pubblicava i due volumi della sua opera più famosa mettendo a fuoco le ragioni di quella che riteneva essere la fase irrimediabilmente decadente della civiltà occidentale, condannata dalla sua stessa natura a inseguire un bisogno di nuovi modelli e così a restare fragile e priva di speranza. Oggi sembra che siamo di nuovo al tramonto dell’Occidente, il nostro mondo. Lo aveva anticipato cinque anni fa, nel 2018, Umberto Galimberti, che non a caso aveva pubblicato un libro con lo stesso titolo, appunto “Il tramonto dell’Occidente”, con l’aggiunta però “nella lettura di Heidegger e Jaspers”, che non è ovviamente cosa da niente. La nostra cultura, diceva Galimberti, è di per sé stessa “occidentale”, “serale”, “destinata al tramonto”. Ma che cosa tramonta e in che senso? Tramonta, diceva, la fiducia dell’uomo occidentale nel suo progressivo dominio sulla natura, che così diventa dominio della tecnica, incapace di un orizzonte di senso.
Come si vede, una lettura che procedeva ancora nel solco della critica alla cultura dell’Occidente tipica del disincanto postmoderno. Dopo il 7 ottobre la lettura internazionale della crisi diventa invece radicalmente diversa. Ad esempio lo scrittore indiano Amitav Ghosh, dopo aver rilevato che viviamo il più grande cambiamento geopolitico degli ultimi tre secoli, dice che ormai “l’Occidente perde il suo dominio”. E il filosofo tedesco Peter Sloterdijk vede avanzare un’ondata di cinismo e di risentimento simile a quella degli anni venti e trenta del Novecento e rileva nel contempo che “oggi personaggi come Putin e Trump si affermano approfittando della stupidità dilagante”.
A proposito di stupidità dilagante, non può essere un caso che proprio in questo periodo in Francia Pierre-André Taguieff senta di dover pubblicare un libro con un titolo che è già tutto un programma, Le nouvel âge de le bêtise, in cui tra l’altro si descrive il dilagare della stupidità accademica, e si indica poi nell’ironia la cura più appropriata, il modo migliore per combatterla senza perderci troppo tempo. Apprezzabile, ma il 7 ottobre e quello che ne è seguito hanno dimostrato che non c’è solo la stupidità accademica e non basta l’ironia come arma di combattimento. C’è qualcosa di molto più serio e strutturato, c’è quello che dice Peter Sloterdijk: cinismo e risentimento diffusi che diventano ideologia antioccidentale ed esplodono come antisemitismo, clima da anni venti e trenta del secolo scorso, clima da Tramonto dell’Occidente. A combatterlo non bastano ironia e disincanto, ci vuole il coraggio di una battaglia politica e culturale a tutto campo.
Si sa che cosa ha fatto Hamas: pogrom, azione e pensiero (inversione di senso del rapporto pensiero-azione in Hannah Arendt) che ricordano ISIS e Olocausto. E si è vista la reazione di Israele, il Paese creato per decisione ONU nel 1948 per dare una patria ad un popolo disperso e perseguitato da secoli e secoli, reazione di difesa legittima e inevitabile, ma dolorosa, drammatica, con stragi e distruzioni. Come reagisce l’Occidente ricco e democratico, erede delle secolari conquiste di libertà, civili e istituzionali, costate lutti e rovine? Dal tipo di reazione dipende anche la risposta alla domanda collegata: chi lavora davvero per il diritto di Israele a difendersi per esistere e per quello del popolo palestinese ad avere una terra in cui vivere con dignità, libertà, rispetto dei diritti e dei doveri? È chiaro infatti che se la risposta è solo di schieramento sugli estremi – Hamas versus sionismo religioso più Netanyahu o viceversa – non se ne esce nemmeno se avrà successo l’operazione attualmente in corso di sradicamento di Hamas dalla striscia di Gaza.
L’Occidente ufficiale reagisce ancora secondo diritto e visione, ma in diversi ambienti, non solo dove è diffusa la bêtise, anzi piuttosto in quelli teoricamente tutt’altro che sprovveduti, reagisce non con la forza del suo razionalismo critico, di un pensiero che ha radici ficcate nella storia e nella ricerca di verità, che sa analizzare e distinguere, esaminare ragioni e torti e prendere posizione sul presente guardando al futuro, ma al contrario negando se stesso, le sue conquiste, la sua essenza, il suo ruolo di generatore di umanità, di promotore dei diritti universali con base nella dignità dell’uomo (Dichiarazione universale dei diritti umani, ONU 1948) come preso da un impressionante cupio dissolvi.
Impressiona come, appena passata l’emozione prodotta dalle bestialità compiute nel corso del pogrom dai miliziani di Hamas, per mille e mille rivoli abbiano incominciato a rovesciarsi le responsabilità dell’accaduto da Hamas a Israele e come abbiano subito attecchito in larghi strati di opinione le fake news diffuse da fonti di Hamas e filopalestinesi. Con la conseguenza del risorgere di un antisemitismo rimasto nel tempo appena sopito e della conseguente moltiplicazione proprio nel mondo occidentale degli episodi di caccia all’ebreo.
Impressionano i rapporti che vengono dalle università e dalle scuole, dove accade qualcosa che riguarda proprio il radicamento culturale e civile dell’intera area occidentale e perciò anche il suo futuro e il suo ruolo nel mondo. Negli ultimi anni, a dire il vero non pochi, insieme con la cultura woke e la cancel culture, si sono diffusi studi postcoloniali da cui è derivata l’idea che esisterebbe una missione decolonizzatrice da compiere come espiazione delle colpe accumulate dall’Occidente nella storia lontana e recente, che dalla realtà politica spazia negli orientamenti ideali e civili nutrendosi di un senso del tutto astratto di giustizia egualitaria e di riscatto dei diversi, per cui va purificata la storia e vanno puniti i soggetti che nella storia hanno operato, in modo presunto o reale, esclusioni, soprusi e violenze.
Il risultato è un potente flusso di scritti, discorsi, posizioni pubbliche mediaticamente curate, di forte orientamento antioccidentale. “Tanto che – come dice il sociologo Massimiliano Panarari – tutto ciò che è fuori dal nostro mondo, in alcune interpretazioni, appare di per sé stesso come il ‘bene’. Mentre tutto quello che è dentro è il ‘male’”. Come meravigliarsi allora che si arrivi alla “decolonizzazione dell’immaginario” (sic!) e all’incantesimo mentale della liberazione dai concetti universali elaborati nel corso di secoli dal pensiero occidentale – la libertà, l’uguaglianza, la democrazia, lo stato di diritto – e dalle correnti filosofiche, politiche ed economiche, che li hanno prodotti – l’illuminismo, il liberalismo, il capitalismo – assurti così a simbolo di una vocazione oppressiva che va ripudiata, ieri come oggi?!
Come meravigliarsi che proprio nelle università, che dovrebbero essere i luoghi del sapere frutto del pensiero che riflette e della verità ricercata, non ci si accorga della realtà che si squaderna da sola davanti ai nostri occhi e si costruisca al suo posto o ci si accontenti di una realtà nemmeno virtuale ma artefatta e distorta?! Così Hamas non è vista come un’organizzazione di estremisti criminali manovrata da stati canaglia e appoggiata da gruppi dell’estremismo jihadista, che ha in spregio ogni diritto e ogni rispetto umano innanzitutto del popolo di cui si dice paladina, e diventa invece il movimento di liberazione del popolo palestinese oppresso da Israele. Così i cattivi maestri fanno breccia nei giovani assetati di verità ma privi di strumenti autonomi e impigriti dall’offerta di soluzioni facili.
E non pare avere rilevanza il fatto che ad appoggiare, finanziare e armare Hamas ci siano il Qatar e l’Iran, e tanto meno che di fatto si sia formato uno schieramento più o meno esplicito di stati ed entità politicamente organizzate che, in dispregio di ogni principio di diritto internazionale, sconquassa gli assetti mondiali portando l’attacco al cuore stesso dell’Occidente. Cosicché stenta anche a farsi strada la convinzione che l’attacco russo all’Ucraina e l’attacco di Hamas ad Israele possano essere parti diverse di una stessa strategia di ridefinizione degli assetti mondiali. Non conta nulla il fatto che l’Iran fornisca droni alla Russia per la guerra in Ucraina e che la Cina stia con l’IRAN e dalla parte di Hamas.
Dopo la fine della guerra fredda e del mondo diviso in due non si è arrivati al mondo multipolare da molti auspicato. Si è invece sgretolato un sistema di regole, magari squilibrate e ingiuste ma comunque sostanzialmente riconosciute, e ci si è trovati a dover fare i conti contemporaneamente con le risorgenti ambizioni imperiali di Cina e Russia e con gli estremismi politico-religiosi del mondo islamico nel mentre le democrazie occidentali entravano in fibrillazione e in progressivo affanno per il venir meno delle certezze sia sul piano materiale e politico-strategico che su quello istituzionale e intellettuale.
Anni e anni di lavoro di quello che possiamo chiamare “il pensiero corto” – quello che è indifferente alla storia, rifugge dalla fatica dell’informazione e della riflessione, si attesta sul culto del presente, coltiva il senso del sé fino al singolarismo – ha prodotto il suo effetto. Non ci siamo accorti che si stavano liquefacendo le basi etiche e di pensiero civile delle nostre democrazie e stavano avanzando torbide pulsioni di irrazionalismo capaci di catalizzare le elaborazioni più distruttive dei diversi estremismi.
Abbiamo ancora gli anticorpi per contrastare quella che appare ormai una pericolosa deriva? Bisogna dire si, per convinzione e per volontà, perché sono custoditi nel pensiero critico, artistico, letterario, filosofico, scientifico e tecnologico dell’Occidente. Un pensiero che ha nell’universalismo la sua forza ideale, etica e politica. Ma non basta saperlo e nemmeno dirlo, bisogna praticarlo. E mentre abbiamo nella democrazia liberale, con le sue libertà e i suoi diritti e doveri condensati nello stato di diritto, la nostra speranza di difendere e migliorare le nostre condizioni di vita, abbiamo anche nell’idea di un’Europa finalmente federale la possibilità di un protagonismo equilibratore di relazioni internazionali oggi pericolosamente incerte e conflittuali.
Le democrazie vanno riformate rendendole più libere, giuste e democratiche, ma nel contempo vanno difese contro l’assalto delle autocrazie coalizzate. L’Europa va resa più europea con il passaggio dall’unione di nazioni alla federazione di popoli con responsabilità comuni, ma nel contempo va difesa sia dai nemici esterni che dalle forze distruttive interne sempre molto aggressive. Le grandi conquiste di una civiltà universale proprie dell’Occidente vanno fatte vivere nella pratica quotidiana e nell’educazione delle nuove generazioni.
Non ci aiuta la rinuncia al pensiero critico e il comodo culto della bêtise del pensiero corto. Prima ce ne renderemo conto e prima la smetteremo di correre dietro alle pulsioni irrazionali indotte il più delle volte ad arte da poteri organizzati che oggi possono avvalersi, oltre che dei media tradizionali, soprattutto delle tecnologie digitali. E con ciò, evidentemente senza automatismi ma con un impegno e una determinazione intellettuale e morale tutta da riscoprire, potremo/dovremo anche contrastare gli elementi distruttivi della civiltà occidentale di cui l’antisemitismo è l’espressione più evidente e più pericolosa.
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