di Sud
A Napoli lo chiamano “pall’ ‘e riso”, e somiglia a un’arancia molto più dell’arancino, che ha quasi sempre forma conica e ricorda il frutto solo per la doratura. Il riso allo zafferano e la carne in umido (il ripieno classico) lo riconducono alla cucina araba, mentre la panatura pare sia stata introdotta da Federico II. Sui moderni ripieni “estrosi” (al salmone, alla nutella) stendiamo invece un velo pietoso.
La disputa maschile/femminile è ancora irrisolta, e non aiutano neppure le fonti letterarie. De Roberto nei Vicerè parla di «arancine di riso grosse come un mellone», e anche Sciascia le declina al femminile, in un gustoso (sotto tutti i punti di vista) pezzo del 1962 per L’Apollo buongustaio di Mario Dell’Arco. Per Camilleri invece Gli arancini di Montalbano sono evidentemente maschili.
E il supplì? Né tondo né a cono, più piccolo e ovale, e il riso non è bianco o giallo ma al pomodoro. Nella versione classica “al telefono”, con un pezzetto di fiordilatte all’interno, si mangia rigorosamente con le mani, ancora caldo e filante. Rispetto al suo parente siciliano l’etimologia del romanissimo supplì è un po’ più curiosa: viene dal francese surprise, con riferimento al sorprendente ripieno.
Pasolini pare ne fosse ghiotto. Li divorava nella friggitoria sotto casa a Donna Olimpia, all’Obitorio di Trastevere (la pizzeria coi tavoli di marmo così ribattezzata dallo stesso poeta), o al Biondo Tevere, la trattoria immortalata da Visconti in una scena di Bellissima con Anna Magnani e Walter Chiari, dove Pasolini era cliente abituale e consumò l’ultima cena.
In Ragazzi di vita, Alduccio e Begalone rimediano «un par de piotte» per una «inzifonata»; ma il richiamo della fame è più forte di quello sessuale. I due passano davanti a una rosticceria e «vaffanculo… tre suppli peruno». I sottoproletari di Pasolini devono molto ai popolani del Belli, e alla loro sfrontatezza. Come quella di paragonare la tiara papale, il triregno simbolo del suo
potere, a un gran supplì.