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di Ida Meneghello

Cosa si può dire che non sia già stato detto, in un film dedicato agli ultimi giorni del re di Francia Luigi XVI, per i sans-culottes il cittadino Luigi Capeto?
Per chi, come me, ha amato smisuratamente il capolavoro del cinema muto “Napoléon” di Abel Gance, esaltandosi alle gesta dei rivoluzionari, “Le déluge” (il diluvio), sottotitolo “Gli ultimi giorni di Maria Antonietta”, è un pugno nello stomaco. Perché il secondo lungometraggio del regista Gianluca Jodice (che aveva firmato nel 2020 “Il cattivo poeta” e di questo film scrive anche la sceneggiatura con Filippo Gravino), ci mostra ciò che l’iconografia inneggiante alla rivoluzione non ha mai raccontato: il punto di vista umanissimo del re e di sua moglie Maria Antonietta nei giorni che precedono la loro esecuzione. Un rovesciamento totale della narrazione che, non concedendo nulla al pietismo e lo sottolineo, porta inevitabilmente lo spettatore dall’altra parte della barricata.

La bravura di Jodice nel realizzare una pellicola che definisco imperdibile è solo la punta dell’iceberg. Perché per fare un film così ci vuole una squadra di professionisti eccellenti. Elenco qui gli elementi che a mio giudizio raccomandano la visione di “Le déluge”.

1- Innanzitutto la scelta dei luoghi. Jodice decide di girare la pellicola nel Piemonte dei Savoia: il Castello Ducale di Agliè, la Reggia di Venaria Reale, la Palazzina di Caccia di Stupinigi, il Parco di Nichelino. ll film è ambientato nel 1792, nei giorni dell’arresto dei sovrani trasferiti nella prigione della Torre del Tempio, un castello medievale alle porte di Parigi, in attesa della sentenza. Le atmosfere filtrate nei toni freddi del blu e del grigio sprofondano lo spettatore nell’ansia fin dalla prima scena inquadrata dall’alto, con l’arrivo delle carrozze che portano al maniero il re e la sua famiglia. È quell’inquadratura, come insegnava Hitchcock, che fa presagire l’apocalisse, e lo spettatore sa che il lieto fine non ci sarà.

2- Un valore aggiunto fondamentale è dato dalla fotografia del regista e sceneggiatore Daniele Ciprì, capace di trasformare ogni scena e ogni inquadratura in altrettanti quadri che evocano la meraviglia degli interni dei pittori fiamminghi e i tagli obliqui della luce di Vermeer su persone e oggetti. Se questa pellicola è imperdibile, lo deve innanzitutto alla fotografia di Ciprì.

3- La scelta di entrare nei particolari è un altro fattore distintivo del film: gli abiti, i bottoni degli abiti, i merletti, le parrucche, i gioielli, i segni del potere perduto, le fibbie delle calzature, la biancheria, ogni dettaglio è messo a fuoco e dà concretezza al racconto, la tragedia non è fiction, è tutto maledettamente vero. Del resto noi guardiamo i particolari voluti da quel dio dei costumisti che è il fiorentino Massimo Cantini Parrini, un curriculum infinito costellato di titoli indimenticabili come il “Cyrano” di Joe Wright o “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone.

4- Nel film lo spettatore non vede gli attori “recitare” perché i dialoghi sono scarni, reali, fatti di parole vere e quotidiane immerse in silenzi ancora più eloquenti.
Da brividi l’incontro che il re chiede con il boia che lo ghigliottinerà la mattina dopo, un piano sequenza in cui il sovrano vuole sapere cosa succederà nei minimi particolari, come verrà condotto al patibolo eretto nella piazza della Rivoluzione, cosa accadrà nel momento estremo, fino a chiedergli se è vero ciò che si dice, che la testa staccata così bruscamente dal corpo mantiene per qualche secondo la coscienza di ciò che le è accaduto, può ancora vedere l’orrore perché il sangue continua a circolare. Prima che tutto diventi buio.

5- Infine la bravura del cast scelto da Jodice. Guillaume Canet incarna alla perfezione il Luigi XVI dei nostri libri di scuola, col viso rotondo e lo sguardo perso di un uomo incapace di reagire all’apocalisse, ma l’attore aggiunge umanità al personaggio e lo rende gigantesco. Mélanie Laurent è la moglie infedele mai amata dalla corte ma ben più consapevole del marito di cosa sta succedendo. Il suo sguardo fiero e le sue urla rivelano un personaggio che si arrende all’inevitabile, ma senza perdere la propria dignità. Inconfondibile infine il volto di Aurore Broutin che impersona Elisabeth, la sorella del re.

Co-prodotto da Paolo Sorrentino (che conosce bene Jodice, napoletano come lui e già autore di un documentario dietro le quinte de “La grande bellezza”) il film ha inaugurato lo scorso festival di Locarno.
Lo dico semplicemente: non è, come ha scritto qualcuno, un film reazionario, è invece un film che non ti aspetti. Il ribaltamento del punto di vista si riflette addirittura sui titoli di testa e di coda che scorrono al contrario, non dall’alto in basso ma dal basso in alto. Anche in questi dettagli c’è una logica.

“Après moi le déluge” disse Luigi XV. Il diluvio arrivò con tutta la sua ferocia sulla testa di suo nipote. E noi ci siamo ancora dentro.