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di Tommy Simmons

Mentre una parte della popolazione europea si sente minacciata da una “crisi migratoria” senza precedenti, nei fatti il continente si trova sostanzialmente ai margini di un fenomeno variegato che nella storia riemerge ciclicamente ed attualmente è marcatamente in crescita. Purtroppo, i mezzi di comunicazione – e dunque anche coloro che li seguono – tendono a differenziare poco tra le diverse tipologie di “persone in movimento” e c’è una scarsa contestualizzazione dei numeri che vengono pubblicati. Milioni di persone sono perennemente in movimento sul pianeta e compongono un grande e complesso affresco umano, ma la tendenza è di concentrare l’attenzione sui dettagli più vicini alle nostre realtà e di trascurare il quadro complessivo. E mentre il dramma concreto delle fughe più disperate da situazioni intollerabili giustamente attira la nostra attenzione (secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (iom.org) dal 2014 ad oggi più di 50.000 migranti hanno perso la vita durante il loro viaggio di speranza – anche nel Mediterraneo), la gran maggioranza degli spostamenti e ricollocamenti avviene in silenzio, senza causare echi particolari.
Migrare, spostarsi, lasciare le proprie case non è facile. Chi lo fa è sospinto principalmente da motivazioni economiche, la ricerca di un lavoro e di un contesto sociale percepito come più agevole. Per questo motivo la maggior parte degli attuali movimenti umani riguarda gli spostamenti dalle zone rurali di un paese verso le sue città, le sue industrie e servizi. Conseguentemente la proporzione della popolazione mondiale che vive nelle zone urbane è aumentata dal 30% del 1950 al 54% del 2015 e si stima che per il 2050 almeno il 66% della gente vivrà nelle città. Spostarsi all’interno del proprio paese significa poter conservare la propria cultura, usare la propria lingua, mantenere un contatto più ravvicinato con i propri cari: per la maggioranza delle persone è senz’altro la soluzione più semplice e si stima che attualmente solo il 3,5% della popolazione mondiale vive in un paese diverso da quello in cui è nato.
Nel continente più vicino all’Europa – l’Africa – la seconda destinazione preferita dai migranti dopo il proprio paese è un altro paese africano. Nel 2017, 2,2 milioni di persone avevano scelto il Sud Africa, 2,1 milioni la Costa d’Avorio e altri milioni l’Uganda, l’Etiopia, la Nigeria e il Kenya. Inoltre, i paesi del Maghreb, e in particolare la Libia, e più di recente gli stati del Medio Oriente, attirano molti giovani in cerca di opportunità lavorative. I circa 100mila migranti africani che si stima raggiungono annualmente l’Europa sono in confronto un numero esiguo. L’affinità, i contatti, la lingua, la vicinanza restano sempre i criteri principali adottati da chi spera che l’erba del vicino sia più verde di quella di casa propria.
A questi migranti “economici,” produttivi, vanno però aggiunti i crescenti numeri di persone in fuga da una crisi – tutte persone teoricamente tutelate dalle convenzioni internazionali sui diritti umani. Allo stato attuale, l’agenzia delle Nazioni Unite preposta alla tutela dei rifugiati (unhcr.org) ritiene che nel 2023 sarà necessario garantire la tutela di quasi 120 milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case per svariati motivi – in particolare conflitti ed estremi climatici. Questa cifra enorme è gradualmente, inesorabilmente, aumentata dai 40 milioni di rifugiati e sfollati registrati nel 2012, ma più della metà di questa massa umana è sfollata all’interno del proprio paese di origine e a parte la recente grande ondata di rifugiati dall’Ucraina – che hanno trovato protezione soprattutto nei paesi confinanti con lo stato invaso dall’esercito di Putin – le principali crisi che negli ultimi anni hanno causato un’impennata di esodi (Afghanistan, Iraq, Siria, Myanmar, Sud Sudan, Venezuela sono ben lontane dai nostri confini) e le loro vittime si sono fermate soprattutto nei paesi limitrofi.
La tendenza attuale dei numeri di rifugiati, sfollati, richiedenti asilo, migranti economici è senz’altro in aumento e la loro entità futura dipenderà dallo stato delle economie dei paesi più fragili, dalla loro stabilità e dal grado di intensità dei conflitti che periodicamente esplodono in tutto in mondo. Ma ai tradizionali motori che stimolano le migrazioni – compresa la demografia – oggi si è aggiunta una variante dai contorni ancora incerti ma pur sempre minacciosi: i cambiamenti climatici. Il riscaldamento ulteriore della già torrida fascia equatoriale e l’innalzamento del livello degli oceani potrebbero costringere centinaia di milioni di persone ad abbandonare permanentemente i propri paesi (sempre i più fragili e meno attrezzati per affrontare gli sconvolgimenti); l’intensificarsi dei cicli di alluvioni e siccità stanno già minando la capacità di milioni di persone di sopravvivere su territori che le sostenevano da generazioni e ogni angolo del mondo deve affrontarne le conseguenze.
Per evitare – o perlomeno per limitare – lo sviluppo di una reale “crisi migratoria” che l’Europa non è politicamente pronta ad affrontare, il continente dovrà intensificare la sua attenzione e suoi investimenti su numerosi fronti già attivi: per contenere la spinta migratoria “economica” sarà necessario sostenere la creazione di più opportunità di sviluppo – e lavoro – nei paesi più poveri; per evitare i grandi esodi (e distruzioni e sofferenze) causati dai conflitti sarà necessario intensificare l’attenzione su tutti i fenomeni politici, economici, sociali, ideologici che portano a dar voce alle armi; per sperare di limitare gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici bisognerà accelerare la limitazione dei consumi globali di energie “sporche” anche in Europa, investire nella diversificazione energetica anche dei paesi più poveri e aiutarli ad adattarsi ai cambiamenti già in atto.
Non bisogna comunque dimenticare che il declino demografico europeo e l’invecchiamento della sua popolazione rendono necessario l’arrivo regolare di numeri importanti di giovani immigrati (per il 2023 la Coldiretti chiede al governo di facilitare l’ingresso di almeno 100.000 lavoratori stagionali per garantire la manodopera necessaria al settore agricolo della sola Italia). L’Europa dovrà dunque anche facilitare e razionalizzare in modo coeso e trasparente un processo positivo sia per gli europei sia per chi è in movimento per cercare una vita migliore. Chi continua a focalizzare l’attenzione sui rischi di una intensificazione di una “crisi migratoria” incontrollata accentua la xenofobia e le tensioni interne ai diversi paesi, rende una reale integrazione di chi arriva sulle nostre coste ancora più difficile e nega il fatto che le nostre società stanno inevitabilmente diventando più variate.