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di Lucio Caporizzi

Se si dà un’occhiata ad un qualunque grafico che mostri l’andamento del Pil dei Paesi europei nel lungo periodo, si vede a prima vista come l’Italia sia l’unico grande Paese europeo a non saper crescere.
Ponendo pari a 100 il dato del Pil dell’ultimo trimestre del 1998, infatti, vediamo Paesi come Olanda e Spagna attestarsi intorno a 150, Francia e Germania poco sotto 140, mentre l’Italia si colloca intorno a 110. Ciò ha avuto ripercussioni anche sul Pil pro-capite il quale, sempre nei confronti con l’Europa, è sceso nello stesso periodo sotto la media europea, nonostante il concomitante forte rallentamento demografico, che è divenuto un vero e proprio crollo negli ultimi anni, con una perdita di oltre il 2% di residenti dal 2018.
La perdurante stagnazione economica ha avuto ed ha effetti di varia natura, anche di ordine sociale e politico, oltre che economico. Intanto ha favorito un accentuarsi della concentrazione del reddito e della ricchezza, il che non giova alla coesione sociale, oltre che alla dinamica della domanda aggregata.
La stagnazione economica, inoltre, è una condizione con serie ripercussioni psicologiche, portando infatti a radicare la convinzione che non si possa migliorare la propria condizione se non a discapito di altri. Da ciò gli orientamenti antagonisti, “contro gli altri” nel voto politico ed il crescere dell’appeal populista.
Sono state necessarie fasi di forte sviluppo economico per far penetrare nella mentalità dei cittadini la possibilità che tutti possano beneficiare del mutuo sviluppo, mentre ormai da tempo riemergono e prendono forza visioni “primitive” della società ed anche alcune visioni delle relazioni internazionali, tra queste il “mercantilismo” e numerose interpretazioni della mobilità umana, inclusa quella di una “sostituzione etnica” dove, per esempio, ogni migrante in più implica un indigeno in meno.
L’obiettivo del Piano di ripresa e resilienza europeo era, infatti, non soltanto quello di salvare l’economia italiana dalla gravissima recessione provocata dalla pandemia del 2020, ma di uscire dalla gabbia della crescita zero innalzando permanentemente il livello di sviluppo futuro.
A questo fine sono state identificate le riforme “strutturali” concordate e iscritte nel Pnrr, nonché gli enormi investimenti finanziati dall’Unione europea. Si stimava che un’economia tornata dinamica grazie alle riforme e dotata di maggior capitale avrebbe potuto innalzare di circa lo 0,6% il proprio tasso annuo di crescita, avvicinandolo all’1 per cento. Può sembrare un livello modesto, se confrontato con quello dei primi decenni della Repubblica, ma non lo è visto che il calo demografico – che abbiamo visto essere fortissimo negli ultimi anni – implica che pro capite il reddito delle famiglie italiane sarebbe aumentato sensibilmente.
Ma l’avanzamento del PNRR langue e, a sua volta, il Governo si trova a “fare i conti” (in senso letterale) con le ambiziose promesse elettorali, la cui attuazione si scontra con i ristretti margini di manovra consentiti dai vincoli di bilancio, a loro volta oberati dal fardello del grande debito pubblico italiano.
Sicuramente è presto per provare una valutazione dei risultati ottenuti dal Governo attuale in tema di promozione dello sviluppo economico, ma qualche osservazione sulla gestione della finanza pubblica si può svolgere.
Nella Nadef, il Governo prevede di peggiorare il disavanzo sia per l’anno in corso (dal 4,5 per cento del Pil previsto nel Def al 5,3 per cento) che ulteriormente per l’anno successivo (dal 3,7 per cento al 4,3 per cento del Pil). L’incremento del deficit non ha giustificazioni sul piano economico. L’economia italiana è in rallentamento, ma non in recessione, anche se difficilmente raggiungerà la crescita dell’1,2 per cento prevista nel 2024.
Ma il problema vero della manovra non riguarda tanto il deficit, quanto il debito. I numeri presentati nella Nadef prevedono una riduzione minuscola del rapporto debito/ Pil nel prossimo anno (dal 140,2 per cento nel 2023 al 140,1 per cento nel 2024) e una riduzione altrettanto ridotta negli anni successivi (raggiungeremo il 139,6 per cento nel 2026), oltretutto facendo affidamento sui soliti proventi da privatizzazioni, che raramente si realizzano negli importi previsti.
I mercati non hanno gradito tali scelte, spingendo lo spread sui titoli del debito pubblico oltre i 200 punti base. Dal punto di vista della gestione del debito pubblico, infatti, l’Italia gode ancora del vantaggio dato dalla differenza tra il costo medio del debito e la crescita nominale del Pil (con quest’ultimo valore “gonfiato” dall’inflazione), che comporta un’automatica riduzione del rapporto debito su Pil. L’effetto si esaurirà nel giro di due-tre anni, via via che il debito viene rinnovato a tassi di interessi più elevati e l’inflazione si riduce.
Interrompere questo percorso di riduzione del rapporto debito su Pil, pur in condizioni che restano ancora favorevoli, rappresenta quindi un segnale fortemente negativo per i mercati finanziari, i quali considerano che se l’Italia non riesce a ridurre il proprio debito in condizioni favorevoli, difficilmente potrà farlo in futuro, quando l’effetto favorevole si sarà esaurito o cambierà di segno e il Paese potrà affidarsi solo ad ampi e crescenti avanzi primari per controllarne la dinamica.
Certo, vedere che l’Italia che stenta a spendere i miliardi del Pnrr, ricorre poi ad extradeficit per finanziare spese correnti come la riduzione del cuneo fiscale, non è proprio il massimo per far crescere la fiducia nel nostro Paese da parte di investitori e partner europei.