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di Ida Meneghello

È “Il Gladiatore” girato nel futuro distopico di “Blade Runner”, in una città che evoca “Metropolis” di Fritz Lang, ma invece del bianconero ci sono i bagliori fiammeggianti di “Apocalypse Now”.
Provo a dare un’idea di cosa sia l’ultimo film di Francis Ford Coppola “Megalopolis”: è innanzitutto – o almeno io così l’ho visto – un’orgia cinematografica, con le corse delle bighe nel Colosseo di “Ben Hur”, le giovani donne danzanti e spudorate de “La grande bellezza” (con pepli trasparenti e calzari fetish), i trapezisti circensi de “I clowns” e pure gli efebi di “Fellini Satyricon”. E potrei continuare con le citazioni, questo film è il trionfo delle citazioni.
Per questo motivo “Megalopolis” è una visione faticosa, è come affrontare un banchetto con troppe portate o un piatto indigeribile con troppi ingredienti che chef Barbieri boccerebbe definendolo “mappazzone”.

Eppure credo che valga la pena vedere la favola senile di Coppola, se beninteso si ama incondizionatamente il cinema. Perché in questa pellicola – forse l’ultima della sua lunga e sfolgorante carriera costellata di Oscar, Golden Globe e Palme d’oro, un film a lungo meditato se è vero che ci pensa dai tempi delle riprese di “Apocalypse Now” – il regista arrivato a 85 anni ci rivela il suo sogno impossibile: fermare il tempo.
È il segreto dell’architetto Cesar Catilina, progettista visionario di una New York che è come la Roma imperiale dei Cesari (infatti si chiama New Rome), una città ideale che lui intende ricostruire da zero con un materiale rivoluzionario che gli è valso il premio Nobel: il Megalon, più resistente del cemento, capace di andare oltre il tempo fondendo la materia organica con quella inorganica, una sostanza che non solo rende indistruttibili i palazzi, ma riesce persino a vincere la morte, come il Sacro Graal di Indiana Jones.
Ma questo progetto di riqualificazione urbana e umana è boicottato dal sindaco di New Rome Franklyn Cicero, deciso a mantenere il potere nelle mani delle famiglie patrizie che lui rappresenta e che sarebbe messo in discussione dall’ambizione di Cesar di creare una metropoli in cui la gente vive come nel giardino dell’Eden.

Coppola racconta dunque questa lotta di potere in cui esplodono le proteste dei plebei senzatetto che non mancano neanche nell’opulenta New Rome, le trame dei populisti che quelle proteste fomentano, gli intrighi degli entourage che circondano Catilina e Cicero e che coinvolgono le rispettive famiglie in guerra. La sceneggiatura di Coppola si avvita in intrecci ridondanti nei quali trovano spazio dialoghi in latino, citazioni di Shakespeare e Marco Aurelio e rimembranze scolastiche (come la celebre invettiva “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” cioè fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza, lanciata ovviamente da Cicero contro l’architetto).
In questa giungla di riferimenti, Coppola fa emergere lo schema del più classico dei drammi: Romeo e Giulietta. Perché a innamorarsi di Cesar è la figlia del suo nemico, Julia. E non è un amore dall’esito scontato, visto che Cesar Catilina è un alcolizzato ossessionato dal fantasma della moglie suicida, una morte di cui era stato ritenuto responsabile dal procuratore dell’epoca (lo stesso Cicero non ancora sindaco).
Non vado oltre nel tentativo di riassumere una sceneggiatura tanto ingarbugliata in cui è facile perdersi e che combina i tipici ingredienti della fantascienza e del fantasy, aggiungendo richiami all’attualità politica americana, come nel caso dei rivoltosi che assaltano il municipio di New Rome, evidente riferimento all’assalto a Capitol Hill.

È chiaro fin dalle scene iniziali che il film di Coppola oscilla tra utopia – il progetto di una città ideale costruita con un materiale capace di vincere l’usura del tempo – e distopia – New Rome viene parzialmente distrutta dalla caduta di un satellite russo.
Ma se è vero che “utopia” significa in nessun luogo, allora la parola-chiave per comprendere la favola di Coppola è piuttosto “ucronia”, cioè in nessun tempo (per citare l’ultimo libro di Emmanuel Carrère).
Perché dominare il tempo è il pensiero che ossessiona l’architetto Cesar Catilina e dietro di lui l’anziano regista: entrambi gridano “stop time!” e tutto improvvisamente si ferma. Perché è una favola, Coppola ce lo dice all’inizio del film. La favola di un regista che ha fatto la storia del cinema e non si arrende all’ineluttabile “caduta dell’impero” che crolla quando la gente non ci crede più.
Nessuno può fermare il tempo, neanche un grande regista. Ma noi possiamo sempre credere al cinema, il “Megalon” indistruttibile di cui sono fatti i nostri sogni.