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di Chiara Basta

Celebrare i primi cento anni di vita di un Museo è occasione rara e motivo di grande gioia, almeno per chi – come me – fa dei musei la propria professione e riceve dai musei una intensa fascinazione. Il Museo del Capitolo della Cattedrale è il nostro festeggiato: venne aperto nel settembre del 1923, in occasione del quarto centenario della morte di Pietro Vannucci e nel 2023 rinnova profondamente il proprio percorso e offre ai visitatori un nuovo allestimento. Le opere sono infatti disposte non più secondo un criterio cronologico, per cui nel percorrere gli spazi espositivi si risaliva la linea del tempo dai periodi più lontani fino ai più recenti, ma secondo un andamento tematico. La scelta è stata a lungo ponderata, poiché avrebbe significato individuare nuove priorità e finalità, la più importante delle quali è risultata essere quella della leggibilità delle opere nel contesto che le ha generate.
La visita del Museo inizia infatti dal fianco est del Chiostro della Cattedrale, che va percorso per entrare fisicamente negli spazi museali; lungo quel lato, infatti, sono visibili i materiali che costituiscono il nucleo più antico delle collezioni museali, cioè quei materiali lapidei erratici che vennero collocati dal dotto canonico Luigi Rotelli (1833 –1891) su incarico del Capitolo della Cattedrale. I manufatti murati nel chiostro nel 1871, provenivano dai cambiamenti operati nella Cattedrale nel corso del tempo, ma anche da altre zone della città, confermando il ruolo di riferimento della cattedrale in ambito culturale.
Anche la prima sala del Museo continua questo racconto, individuando la provenienza dei manufatti ora esposti, cioè dalle chiese della Diocesi e dalla cattedrale: accanto all’affresco strappato della cosiddetta “Madonna del Verde” e della lastra della mensa del suo altare si vede la bella cimasa di un polittico attribuito al pittore noto come “Maestro di Paciano”, proveniente da Migiana di Mone Tezio, o quello di Meo di Guido da Siena, già collocato in Cattedrale.
Una sala è stata dedicata all’altare che Agostino d’Antonio, meglio noto come Agostino di Duccio, scultore nato a Firenze nel 1418, realizzò per la navata della cattedrale su commissione del nobile perugino Nicolò Ranieri nel 1473 per l’Ospedale di S. Maria della Misericordia. Si tratta di rilievi in marmo organizzati come una pala da collocarsi sull’altare e rappresentanti Cristo in pietà al centro a ai suoi lati Maria e Giovanni apostolo. In alto, Gesù nell’atto di benedire attorniato da teste di angeli. Non si tratta della ricostruzione dell’altare, al momento non possibile nella sua interezza, quanto piuttosto della valorizzazione di un manufatto di altissima qualità formale e storica. Le lastre scolpite nel Quattrocento erano già state scolpite circa tre secoli prima, com’è possibile vedere girando attorno all’apparato espositivo, e costituivano le decorazioni del portale della cattedrale romanica della nostra città, non conservata.
Nella Perugia medievale e rinascimentale le processioni costituivano eventi frequenti e di grande rilevanza devozionale e sociale: erano dei veri e propri happening grazie ai quali la comunità consolidava il proprio senso di appartenenza e invocava protezione e aiuto. Una delle opere più rappresentative in questo senso e il gonfalone processionale proveniente dalla chiesa di S. Fiorenzo, e realizzato dal pittore perugino Benedetto Bonfigli (1420 – 1496) in occasione della pestilenza del 1476. Nella stessa sala però è esposte una tavola che, benché non possa essere considerata legata alle processioni, reca i segni dell’intensa devozione di cui fu oggetto. Intendo riferirmi alla “Dormitio Virginis” del 1432 proveniente da Papiano, in cui sono evidentissimi i segni delle bruciature provocate dall’accensione delle candele. Da una visita pastorale cinquecentesca sappiamo che era usanza di quella comunità accendere le candele sotto alla figura di ciascuno degli Apostoli attorno alla figura di Maria e individuare quale di essi pregare grazie al cero che si consumava più lentamente per chiedere la guarigione dall’epilessia.
Al centro del percorso museale, non per caso, si trova la sala dedicata all’opera di Luca Signorelli (1450 – 1523) nota come pala di S. Onofrio o pala Vagnucci (1484), dal nome dei committenti. E’ un’opera capitale per la comprensione del pittore, i cui inizi come allievo di Piero della Francesca non sono chiaramente documentati da opere unanimemente a lui attribuite dalla critica. Questo è invece un dipinto che ci mostra un maestro ormai autonomo sul piano formale e compositivo, che raggiunge risultati altissimi. Alla stessa committenza va ricondotto l’altare di devozione privata che proviene dalla sacrestia privata dei Vescovi in cattedrale e opera di Benedetto da Maiano.
Uno spazio importante è riservato al culto tributato al S. Anello, a un oggetto che sarebbe cioè stato l’anello nuziale di Maria e Giuseppe e giunto a Perugia nel 1473 a seguito di un furto perpetrato da un frate che lo sottrasse alla città di Chiusi. L’anello non è una vera reliquia e non è quell’anello che la tradizione vi riconosceva. E’ però una testimonianza centrale della storia di Perugia, collegata alla signoria della famiglia Baglioni e alle notissime tavolette lignee dipinte conservate nella Galleria Nazionale dell’Umbria.
Ma anche la Perugia medievale, la Perugia dei Papi viene raccontata attraverso manufatti importantissimi, come il trono in ebano, completamente intagliato, che va messo in relazione alla presenza e all’elezione di cinque pontefici avvenute in città tra il 1216 e il 1305, o il piccolo e prezioso parato liturgico in seta ricamata in argento con la scena della Trasfigurazione, esemplare unico di una rara tipologia sopravvissuta nel corso dei secoli.
Queste storie, la storie narrate attraverso le sale del Museo, ci collegano strettamente al passato, ma ci traghettano in un presente in cui la capacità di raccontare ci consente di conoscerci e di godere di bellezza e unicità.