di Sud
Tra i versi più antologizzati di Giuseppe Parini sono da annoverare senz’altro quelli dedicati alla “Vergine cuccia”. L’episodio (per chi non lo ricordi) è una rimembranza della Dama, padrona di casa. La sua cagnetta, «giovanilmente vezzeggiando», aveva morso «il piede villan» di un servo che, colpevole di averle dato un calcio, era stato bandito da tutte le case perbene e gettato «con la squallida prole e con la nuda consorte a lato su la via».
Ma come mai alla Dama era tornato in mente quel «fero giorno»? Siamo nel Meriggio, uscito nel 1765 come seconda parte del Giorno, il poemetto satirico iniziato da Parini due anni prima con la pubblicazione del Mattino. Nella descrizione del pranzo aristocratico che prende tutta la scena, un personaggio si distingue dagli altri: è un vegetariano, che ha «nel bel mondo onor di filosofico talento», e «ozioso siede aborrendo le carni».
Per lui è un’anima volgare colui che prova pietà per «i danni o i bisogni o le piaghe» dei suoi simili. È nobile invece commuoversi per i «teneri belati» dell’«innocente agnella», per i «pietosi mugiti» del «placido bue», e per le loro «molli lingue lambenti tortuosamente la man che il loro fato, aimè! stringea». Ed ecco che dagli occhi della Dama spunta una «dolce lagrimetta», con il ricordo «del misfatto atroce».
Il «pietoso favellar» del filosofo vegetariano non era una rarità a quei tempi. L’Illuminismo, con le sue riflessioni sulla ragione, sulla tolleranza, e sull’anima, era spesso arrivato a conclusioni “animaliste” e “vegetariane”, persuasive e di grande attualità. Ma la satira di Parini sfiora un nervo scoperto e non meno attuale: è giusto impietosirsi per la sorte degli animali e indignarsi per le “fabbriche di cibo” quando tanta umanità soffre ancora la fame?