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di Nicola Fano

Nel 1445, quando presumibilmente Piero della Francesca cominciò a lavorare al Polittico della Madonna della Misericordia (oggi al museo di Sansepolcro), il teatro non esisteva. O, meglio, non esisteva il teatro come lo conosciamo oggi. In più, non c’erano i luoghi teatrali al chiuso che oggi qualcuno di noi è abituato a frequentare: platea, palcoscenico, palchetti, boccascena e tutto il resto.
Ma, soprattutto, non esisteva il sipario, ossia quel vasto tendone rosso che divide lo spazio della realtà (la platea) dallo spazio della fantasia (il palcoscenico). Quando il sipario è chiuso, i due mondi restano separati inesorabilmente, invece, una volta aperto, è tutto un viavai di emozioni tra chi recita e chi guarda. Il teatro è la relazione emotiva che si crea tra un attore e uno spettatore, tra ogni singolo attore e ogni singolo spettatore. Ebbene, questa relazione passa attraverso quella porta magica che dal Seicento in avanti si è chiamata sipario. Fu con l’introduzione del modello cosiddetto del teatro all’italiana che il sipario iniziò a diffondersi: era uno strumento indispensabile per rendere sorprendente lo spettacolo. Ad ogni apertura, una nuova scenografia ammaliava e stupiva il pubblico: il velario doveva nascondere e poi rivelare la meraviglia.
L’iconografia tradizionale ha identificato il sipario come una grande tenda aperta. In passato, quando non c’erano l’elettricità né la tecnologia, mediante una solida corda il direttore di scena raggrumava il tendone in due semicerchi (divisi, appunto, dall’allacciatura della corda) come ancora oggi si fa nelle case nobiliari o all’antica. Dalla comparsa della corrente elettrica nell’edilizia pubblica (grosso modo dall’inizio del Novecento), un pulsante apre e chiude le due tende fino a farle sparire dietro all’arco di proscenio.
Perché tutta questa spiegazione? Perché il sipario è nato quando ancora non era nato.
Sennonché torniamo al Polittico della madonna della Misericordia di Piero della Francesca. L’abito della Madonna è un sipario. Un grande sipario aperto sotto al quale otto individui agiscono come piccoli attori. Pregano, nello specifico, ma ognuno a modo proprio. Diciamo che recitano una parte, un ruolo specifico nella grande commedia della vita: addirittura, a sinistra della Madonna, al centro del gruppo c’è un uomo distratto che sembra guardare il pubblico davanti a sé. C’è chi dice che sia l’autoritratto di Piero stesso.
Per Piero della Francesca, però, il sipario era quasi una fissazione. Una costante delle sue opere che introduce, appunto, quella funzione di strumento della rivelazione della meraviglia (della sorpresa della vita) che quasi due secoli dopo avrebbe assunto il velario dei teatri all’italiana. Pensate alla Madonna del Parto di Monterchi (1455-1465): un altro sipario, aperto deliberatamente da due angeli, pone sulla scena la Vergine incinta. E pensate ancora al Sogno di Costantino nel Ciclo della Vera Croce (1452-1466) nella basilica di San Francesco ad Arezzo. Anche qui l’imperatore romano che aprì le porte al cristianesimo dorme sotto a un vero e proprio sipario. Per altro, qui Costantino sogna l’angelo che scende dal cielo e gli annuncia la vittoria: una scena che Shakespeare, oltre centotrenta anni dopo, copiò pari pari seppure alla rovescia, ponendo sotto sul palcoscenico un altro re, Riccardo III, che sotto a un analogo sipario sogna non un angelo che gli annuncia la vittoria, ma le sue vittime che gli predicono la sconfitta. Il sipario – e il sogno – di Shakespeare si specchiano in Piero della Francesca. E, come è noto, Shakespeare non solo non è mai stato in Italia ma con ogni probabilità non aveva alcuna notizia di Piero della Francesca e del Rinascimento italiano: fu solo subito dopo la morte del grande teatrante che, con la salita al trono di Carlo I Stuart – grande appassionato d’arte – le opere del Rinascimento italiano iniziarono a circolare a Londra. Ma è altrettanto noto che per Shakespeare l’atto di assistere a una rappresentazione teatrale equivaleva a sognare: in questa chiave, il sogno di Costantino è il suo spettacolo.
Corrispondenze, casualità, intuizioni che circolano tra menti geniali: Piero della Francesca, Shakespeare, il sipario…
Alberto Burri, quando voleva sottolineare il suo solido rapporto con la pittura rinascimentale, diceva sempre di aver «respirato l’Umbria». Aveva ragione, ovviamente. In quale chiave vada letta questa affermazione lo spiega un’opera di Burri – magnifica – esposta negli ex Seccatoi di Città di Castello.
È una di quelle che fanno parte del ciclo Il viaggio, del 1979: l’artista intervenne su alcune lastre di metallo (un materiale solo di rado utilizzato prima e dopo) creando un vasto sipario aperto. È una palese citazione dei sipari di Piero della Francesca, quello della Madonna del Parto, soprattutto, ma anche quello del Polittico della Misericordia, secondo gli studiosi di Burri.
Personalmente, preferisco accomunarlo alla tenda aperta sul Sogno di Costantino: il teatro secondo Alberto Burri. Sulle tracce di Piero e di Shakespeare.
Ma è sulla funzione di questo sipario metallico di Burri che occorre interrogarsi, in conclusione. Samuel Beckett, nella sua unica conferenza pubblica (lo scrittore irlandese detestava esibirsi) affermò che la sola situazione felice prevista dall’esperienza di un essere umano è la permanenza nel ventre materno. Ossia quando si è in attesa di vivere concretamente, giacché in quel momento la nostra coscienza è disposta a farsi sorprendere positivamente dalla vita; da ciò che accadrà e di cui non abbiamo nessuna esperienza reale. Una volta fuori, disse Beckett, di norma si susseguono soprattutto le delusioni, che comunque non pregiudicano la condizione di felicità insita nell’attesa. Questa, del resto, è la spiegazione del suo capolavoro, Aspettando Godot. La medesima condizione di attesa o, per essere più precisi, di disposizione a farsi travolgere dalla vita è quella che lo spettatore teatrale vive di fronte al velario serrato nel momento in cui esso sta per essere dischiuso. Ecco: l’apertura del sipario di Piero della Francesca (e di Burri) è tutto questo: la preparazione a cogliere la meraviglia della vita.
Anche quando, poi, la vita finisce per essere tutt’altro che meravigliosa…